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Le nostre sortite clandestine andarono avanti per un po', e ad ogni incontro le nostre anime sembravano legarsi sempre più l'una all'altra. John mi insegnava a disegnare, e devo dire che anche come precettore se la cavava egregiamente. Io non ero un'allieva diligente, le mie linee erano sempre tremolanti e le mie creazioni ingobbite, ma John non smetteva mai di ripetermi che sarei presto migliorata. Non era vero e lo sapevamo entrambi ma, come ho già detto, John era fatto così e continuò a incoraggiarmi. Prima di andarmene lo aiutavo a nascondere gessetti e disegni. Mi ripeteva spesso che sua madre si era raccomandata di tenerli dove la servitù non potesse trovarli, perché se la sua passione fosse giunta alle orecchie di Hawthorne, John avrebbe passato guai seri. Da puritano integerrimo qual era, Hawthorne riteneva che il disegno fosse idolatria.

Una notte, mentre ero seduta alla scrivania e cercavo di tracciare la sagoma di una statuetta di legno che John mi aveva messo davanti, mi vidi scivolare sotto il naso un foglio. La mia reazione fu di totale sbigottimento quando mi resi conto che il volto disegnato sulla carta era il mio.

«Ti piace?» chiese John.

Presi il foglio tra le mani e lo sollevai come se fosse la cosa più preziosa e delicata di questo mondo. La luce delle candele rischiarava l'ambiente e rendeva il ritratto decifrabile in ogni suo particolare.

«È... bellissimo», dissi. E lo era davvero. «Quando l'hai fatto?»

«È da un po' che ci lavoro. Volevo fosse perfetto prima di mostrartelo.»

«Posso tenerlo?»

Lui rise. «Certo che puoi. L'ho fatto per te. È un regalo.»

Lo piegai con cura. Ero pronta a tornare nella mia stanza, quando la porta si spalancò. Io e John ci voltammo nello stesso istante e una lama di ghiaccio mi trafisse lo stomaco. Charity stava sulla soglia e mi fissava. Il suo volto era un miscuglio di emozioni che si alternavano.

«Tu...» mormorò.

Poi scattò. Fu rapida come un gatto. Mi afferrò per i capelli e mi costrinse a guardarla negli occhi.

«Se emetti un fiato, ti uccido.»

Mi trascinò fuori e si richiuse la porta alle spalle. Andammo in camera sua e lì mi costrinse carponi, la fronte sul pavimento.

«Se ti muovi, ti mozzo entrambe le orecchie.»

Feci come mi aveva ordinato e la ascoltai muoversi per la stanza. Di colpo mi strattonò, costringendomi ad alzarmi. Notai che portava un fagotto sottobraccio. Quel che c'era dentro non produceva rumore mentre ci spostavamo in corridoio. Lo percorremmo, con lei che mi artigliava un polso e mi strattonava ogni volta che rallentavo, e quando fummo a pochi passi dalla stanza di John la porta si aprì. Quando lo vidi non potei fare a meno di trattenere un gemito. Cercavo di immaginare come dovessi sembrare ai suoi occhi, e la cosa non mi piacque. Mi sentii umiliata.

«Tornate dentro, signorino. Vostro padre sarebbe molto infelice se sapesse che non siete a letto», disse Charity.

John rimase sulla soglia.

«Se mi costringerete a svegliarlo verremo puniti, ma la vostra verginella sarà punita due volte. E potete credermi, quando vi dico che le farei sputare tutto il sangue che ha in corpo», disse Charity. «Se invece ora tornate a letto, può darsi che domani la troverete ancora intera. Forse un po' malconcia, ma intera. Sta a voi.»

Lentamente, John abbassò lo sguardo e fece un passo indietro. Gli costò molto ma lo fece. Richiuse la porta a fatica, come pesasse un quintale. Charity mi trascinò giù per le scale. Mettemmo piede di sotto e provai a sottrarmi alla sua presa, col risultato di farla infuriare ancora di più.

Il diario di Mercy BrownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora