35.

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Theresa andò alla pagina seguente e si ritrovò a guardare una pergamena intonsa. Non c'era altro.

Rilesse l'ultima frase.

Se il Signore me ne darà licenza...

La colse una terribile certezza. Vide con l'occhio della mente Mercy che si alzava, muoveva verso la camera da letto e crollava a terra a metà strada, stroncata da un infarto. Pregò che non fosse successo in quel modo, ma una vocina sadica le sussurrò che o era andata così, o era spirata durante il sonno.

Chiuse il manoscritto, si alzò e tornò in stanza.

Quando afferrò la maniglia della porta le giunse all'orecchio l'inconfondibile ciarlare di Michelle. Sospirò ed entrò.

Michelle la degnò appena di uno sguardo e tornò a starnazzare. Meditando di tagliarle la lingua mentre dormiva, Theresa mosse verso la piccola scrivania accanto al letto. Sedette e di colpo scoprì di sentirsi vuota. Non capiva il perché. Guardò il manoscritto e un pensiero, folle e assennato al tempo stesso, le attraversò la mente.

Provò a ignorarlo, ma nelle ore successive e per tutta la notte lo sentì crescere e succhiargli energie mentali come un parassita alieno. Fece persino un sogno che in qualche modo era legato a esso.

Si trovava nei boschi che accerchiavano Salem. La luna splendeva, tonda e limpida, e sembrava un occhio arrovesciato. Le ombre si allungavano verso di lei come le dita di un babau e un silenzio mortale avvolgeva la notte. Si guardava intorno alla ricerca di un sentiero, ma quella giungla mostruosa sembrava allungarsi all'infinito in tutte le direzioni. Poi un'ombra oscurava la luna, e quando Theresa sollevava gli occhi trovava un ciclopico mostro dal corpo retinato, la testa da ratto e le zampe di uccello, che riempiva la notte come uno squalo riempirebbe una vasca da bagno.

Provava ad urlare ma scopriva di avere la lingua di legno. Allora si voltava per fuggire, solo che aveva la strada sbarrata da un muro di ombre. Si moltiplicavano e le si sparpagliavano intorno formando un anello che chiudeva ogni possibile via di fuga. L'ombra che il titanico essere gettava su di lei si accorciava improvvisamente, e i contorni di quelle sagome nere assumevano forme definite e fisionomie ancor più nette.

Li guardava e, sebbene non li avesse mai visti, li riconobbe all'istante.

C'erano Hawthorne, nei suoi abiti di ottima foggia, e Charity, magra come un arbusto secco, le dita rattrappite e gli occhi gelidi, piegata come un'anziana afflitta dai reumatismi. C'erano Mather, impettito, e il magistrato Keene. C'erano Abigail, con la morte nei occhi, e Amos e Deliverance, con i loro caldi sorrisi...

E tra tutti quei fantasmi che indossavano abiti di un'altra epoca, Theresa individuava due giovani che si tenevano per mano. Riconosceva in loro i protagonisti del manoscritto, e un leggero sorriso le increspava le labbra. Sollevava una mano e li salutava come avrebbe fatto con due amici di vecchia data. Mercy e John rispondevano al saluto, poi Mercy le sussurrava qualcosa che somigliava ad un "grazie", o forse "ti ringrazio". Theresa provava a rispondere, ma proprio in quel momento i contorni del sogno si sgretolavano.

Theresa si svegliò nella sua stanza al terzo piano del dormitorio. Fissò il soffitto per diversi minuti, aspettando che il cuore rallentasse i battiti, poi si alzò al sedere.

Una lama di luce entrava dalla finestra e si piegava sul letto di Michelle, risalendo la curva del fianco sotto le lenzuola.

Theresa scostò le lenzuola poggiò i piedi in terra. Si prese qualche secondo e raggiunse l'armadio che lei e Michelle dividevano. Recuperò la biancheria intima, un jeans, un maglione e un paio di scarpe e si vestì in fretta. Aveva la mente sgombra. Solo un pensiero navigava in quel mare di calma piatta.

Il diario di Mercy BrownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora