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Mi destai con una lama di sole che filtrava di sbieco dalla feritoia intagliata negli scuri della stanza. Tutte le finestre della Casa Nera erano di vetro, l'unica che avesse quella duplice peculiarità, legno e una feritoia intagliata, si trovava nella stanza della servitù. Charity, pur essendo a servizio nella Casa Nera come me ed Abigail, aveva un alloggio tutto suo. Le sue lenzuola erano sempre lisce e il suo giaciglio era un comodo letto. Non regale come quello degli Hawthorne, ma neanche la branda che avevamo io ed Abigail.

Sollevai le palpebre e restai distesa per qualche attimo, a crogiolarmi nel torpore che precede il risveglio vero e proprio. Lo sguardo mi cadde sul fagotto di lenzuola poco più in là. Abigail dormiva, e non poteva essere altrimenti. Aveva bisogno di ritemprarsi dopo le percosse subìte.

Un rumore di passi in corridoio strappò quel brandello di sonnolenza al quale la mia mente ostinata restava aggrappata. La porta si aprì e sulla soglia apparve Charity.

«Di sotto. Muoviti», disse.

Poi, come sempre faceva, si eclissò.

Mi vestii e la raggiunsi.

Una volta giunta al cospetto di quella megera, capii che si prospettava un'altra giornata difficile. Charity era inquieta. Mi informò che quella sera Hawthorne avrebbe avuto ospiti a cena. Si trattava del reverendo Parris e del magistrato Keene.

Ci tenne a farmi sapere che avrebbe dovuto essere tutto perfetto. Dovevamo pulire casa da cima a fondo. Ogni superficie doveva essere lucida prima dell'arrivo di quelle insigni personalità.

Iniziammo a darci da fare. Spolverammo mobili e lucidammo specchi e finestre. In più a me toccò andare a prendere l'acqua al pozzo svariate volte, cosa che la mia schiena non gradì affatto. Terminammo nel tardo pomeriggio. Ero spossata. Mi era stato consentito di fermarmi solo per pranzare. Un pasto frugale, consumato in fretta e sotto lo sguardo severo di Charity, che sembrava contare i secondi che mi separavano dalla ripresa dei lavori di casa.

Ci fu il tempo per tirare appena il fiato che già ci toccò metterci al lavoro per allestire il banchetto di quella sera. Hawthorne era solito trattare i suoi ospiti con generoso riguardo.

Quando varcai la soglia della cucina e mi richiusi la porta alle spalle, capii che le mie aspettative erano lungi dal confermare la realtà. I ripiani che solo la sera prima mi erano parsi troppo spaziosi per il poco cibo che li adornava, ora erano imbanditi di ogni tipo di leccornia. Manzi in quantità sufficiente per più pasti, patate ammonticchiate l'una sull'altra 'sì da formare un tumulo simile a quello che gli indiani erigevano per i defunti, forme di pane grandi come macigni e un enorme pollo pallido che aspettava solo di essere cotto.

Charity si muoveva frenetica da una parte all'altra della cucina. Quando mi vide mi sollecitò a darmi da fare.

«Pela quella montagna di patate», disse, degnandomi di una breve occhiata.

Iniziai, anche se non avevo molta dimestichezza con quel genere di cose. O per meglio dire ne avevo, ma ero abituata ad una mole di lavoro molto inferiore a quella che mi si prospettava. Le mura entro le quali sono cresciuta non hanno mai accolto altri esseri umani se non quelli che le abitavano. Eravamo in tre, e non vivevamo nell'agiatezza degli Hawthorne. Potevamo permetterci cibo sufficiente per una bocca e dovevamo dividerlo.

Presi un coltello e iniziai a pelare. Mi sentivo lenta e goffa, ma non dovevo preoccuparmi di nasconderlo. Charity era troppo impegnata a fare il grosso del lavoro e non poteva dedicarmi molte attenzioni. Metteva a cuocere il cibo, guarniva i piatti e si assicurava che ci fossero vino ed acqua in abbondanza.

Trovò persino il tempo di preparare la sala da pranzo tra una faccenda e l'altra ed allestire il focolare, 'sì che gli ospiti avrebbero trovato un rinfrancante tepore ad accoglierli.

Il diario di Mercy BrownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora