2: nel quale si confessano orrendi crimini

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Quando Kim aveva per la prima volta messo piede nell'appartamento al terzo piano affacciato sul tranquillo Rio San Polo, nel sestiere omonimo, aveva capito che quel piccolo angolo di Venezia, con la sua vecchia facciata rossastra e i minuscoli balconcini in ferro battuto, sarebbe diventato il suo nido. La Serenissima era ancora un'anziana, dignitosa signora che sapeva centellinare al curioso ascoltatore i molti gustosi aneddoti sulla sua gioventù e quel ritaglio personale all'interno della sua larga coda di volpe era diventato, per Kim, un embrione generato dal suo amore nei confronti dell'antica città. Si era innamorata di quella casa, dell'odore del canale, della possibilità di far crescere qualche pianta rampicante su quei balconi, del ponticello lì vicino, della drogheria decrepita che sembrava provenire direttamente dall'anteguerra. Si era innamorata della possibilità di poter costruire qualcosa di proprio, di condividerlo con la persona che, accanto a lei, rideva con l'uomo dell'agenzia e brillava di luce propria con un solo sorriso.

Kim amava quella casa. Ogni cosa di lei. Ogni piastrella verdemare del bagno, ogni foto sulla parete della camera, ogni pesce tropicale sul copriletto. Era tutta opera sua, sua e di Jozefien.

E nessun dannato uomo bianco glielo avrebbe portato via.

"Kimmy, a cosa stai pensando?".

La voce di Jo spezzò il furioso incanto in cui la mente di Kim stava combattendo una dura battaglia. Fece scivolare lo sguardo sulla sinistra e incrociò i suoi occhi. Jo era sdraiata al suo fianco, un braccio sotto la testa e l'altro sulla pancia, le caviglie incrociate, senza occhiali. Avevano dovuto scegliere un letto adatto alle sue misure, quando avevano arredato casa. A Kim piaceva da impazzire: era ampio, comodo, ci si perdeva dentro. Non era mai stata così contenta di essere piccola.

Appoggiò con uno schiocco il giornaletto delle parole crociate, incastrando la matita tra le ginocchia.

"Non ne sto azzeccando una" sbuffò irritata, lanciando la rivista sul comodino e facendo tintinnare l'abat-jour celeste.

"Ah-a. Proprio per questo sei così arrabbiata, sì?" la prese in giro Jo, allungando un braccio per sfilarle la matita e posarla al sicuro sopra la larga testata di legno. Kim sbuffò e incrociò le braccia sul seno. Notò con la coda dell'occhio il sorriso di Jozefien: probabilmente faceva ridere, con quella sua espressione da bambina irritata e il codino di capelli neri legati sopra la testa come una fontanella.

"Ho fame".

"È fame o rabbia?".

"Probabilmente entrambe".

Erano tornate a casa assieme dopo aver chiuso l'agenzia, alle diciotto e trenta precise. In una giornata normale sarebbero andate a fare la spesa, come ogni mercoledì pomeriggio tardo, ma le preoccupazioni derivate dalla giornata avevano fatto passare loro la voglia. Si erano risolte a cenare con una tazza di latte e stroopwafel. Quelle cialde non mancavano mai in casa: il sangue nederlandese di Jo faceva lo sgambetto, a volte, alle sue origine caraibiche.

Jozefien si voltò sul fianco destro per guardarla. Kim non dubitava che entrambe sapessero bene il perché del suo fastidio. Semplicemente non avevano voglia di affrontare il discorso.

"Lo sai che abbaierà come al solito, vero?" le sussurrò Jo. "Niente di più".

"Non riesco davvero a capire cosa voglia. Cosa abbiamo fatto questa volta? Salutato sua madre? Pulito troppo bene la scala? Ha sognato che ci baciavamo in casa sua? Cosa, Jo? Cosa?".

"Beh, spero proprio che non sia l'ultima opzione, tanto per cominciare. Però non so... non ho idee".

"Ci vuole una mente perversa come la sua per escogitare tutte quelle scuse becere. E sì, questa parola me l'ha insegnata Martino".

La sposa del fuocoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora