La disperazione

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13 Luglio 1789

Arno era a comando del suo reggimento, davanti a una delle poche porte di Parigi che non erano andate in fiamme.

L'aria di rivolta si respirava già da qualche mese ormai, ma da quando il giorno precedente c'era stata quella prima manifestazione al Palazzo Reale le cose erano degenerate: la popolazione ormai era completamente fuori controllo e assolutamente ingestibile.

Quella notte aveva dormito davvero poco, all'alba era stato svegliato dall'allarme, con la notizia che alcuni rivoltosi avevano appiccato incendi in molte porte delle mura della capitale.

Comprendeva perfettamente il motivo di tutte quelle persone in piazza che protestavano. In fin dei conti anche lui sentiva il peso della crisi economica gravare sulle loro teste come la lama di quella strana macchina inventata da poco dagli ingegneri francesi. Ciononostante gli ordini erano ordini e non poteva certo tirarsi indietro davanti ad una disposizione del re, inoltre comprendeva che protestare in quel modo così incivile e vandalico non avrebbe portato a niente se non a dare la possibilità a Comt Ténèbre di poter impossessarsi dell'anima di molte più persone alla volta, rendendo così il lavoro suo e di Coccinelle più complicato di quanto già era.

Quella mattina era stata estenuante e ormai da ore erano lì a cercare di respingere i rivoltosi che non ne volevano sapere di ritirarsi o arrendersi, nonostante fosse grato di non essere stato assegnato a una delle porte distrutte dalle fiamme era stanco: fermare la folla impazzita, o meglio furiosa, senza fare vittime era davvero difficile. Senza considerare che lui non era come gli altri capitani, che davano ordini dalle retrovie, lasciando che i loro commilitoni facessero tutto il lavoro: no, lui era in prima linea, di fianco al suo secondo René Bourgeois e a tutto il suo reggimento.

Una donna si avvicinò a lui, spintonando e facendosi spazio tra la folla, urlando e brandendo furiosa un mattarello.

«Infami! Stiamo morendo di fame! Infami!» urlava a gran voce. Era magra, troppo, sciupata dalla fame e dalla fatica; i vestiti ed i capelli sfatti e in disordine, tutto in lei mostrava l'indecenza e l'ingiustizia che quella crisi stava scatenando nel popolo.

Ingoiò quel boccone amaro e, mantenendo il suo sguardo serio e apparentemente impassibile, la spinse indietro come tutte le altre persone che, prima di lei, avevano tentato di superare la barriera che avevano formato lui e i suoi soldati.

Mai gli era sembrato così duro il suo lavoro, nemmeno quando era ancora una recluta e prendeva ordini dai suoi superiori, mai. Quella giornata, a malapena iniziata, si stava rivelando una delle più faticose in assoluto.

Ciò che gli pesava non era lo stare lì o il respingere persone cercando inutilmente di placare i loro animi furiosi, ma era il fare tutto ciò senza di lei: che ormai era diventata la sua roccia, il suo punto di riferimento, l'unica che riuscisse costantemente a ricordargli per quale motivo stavano facendo tutto quello.

Eppure prima non era così, fino a qualche mese prima avrebbe semplicemente pensato che lo faceva perché doveva farlo e basta e se poi la cosa si dimostrava più difficile o più fastidiosa del previsto si sarebbe sfogato appartandosi con qualche bella nobildonna. Ora però le cose erano cambiate: forse perché aveva conosciuto lei, o forse per l'arrivo di Plagg e della minaccia di Comt Ténèbre, oppure, semplicemente perché era cresciuto.

Il fatto era che vedere tutte quelle persone furiose, proprio come la donna di poco prima, lo innervosiva. Non perché fossero irritanti, ma perché vedeva nei loro visi e nei loro occhi la disperazione e la difficoltà nell'andare avanti in quel modo.

Per quanto lui non vivesse negli agi più assoluti, sapeva comunque di poter sempre contare sul fatto di avere un tetto sulla testa e un pasto caldo tre volte al giorno: tutte cose che, quasi sicuramente, quella folla urlante non aveva, per questo motivo protestava.

Perciò, più passava il tempo, in quell'infinita mattinata di luglio, più si sentiva stanco e a disagio nel respingere quella gente che in fin dei conti aveva soltanto bisogno di essere ascoltata.

Capì però di non aver ancora toccato il fondo di quella pessima giornata, quando tra la folla riconobbe un volto, tra i tanti, furioso e iracondo proprio come tutti quelli che lo circondavano.

«Vigliacchi! – gridava a squarciagola, sovrastato però dalle altre urla – Abbassate i prezzi del pane! Non ne possiamo più! Vogliamo uguaglianza!»

Avrebbe sopportato tutto, ma vedere suo zio, il fratello di sua madre, in quelle condizioni era troppo. Era sporco di terra e sudato, i suoi vestiti erano sudici e sgualciti, il suo viso scavato ed evidentemente stanco.

A quella vista iniziò seriamente a chiedersi per quale motivo fosse lì, a fermare quella che in realtà era una protesta giusta. Stava facendo la cosa migliore?

La folla come presa da un moto di coalizzazione iniziò a gridare un motto: centinaia di voci che all'unisono gridavano e ripetevano le stesse tre parole.

«Liberté, Égalité, Fraternité! Liberté, Égalité, Fraternité! Liberté, Égalité, Fraternité!»

Perché lo stava facendo? Perché era lì ad impedire alle persone di protestare se non avevano più nulla da mangiare?

Poi la risposta arrivò, una nube densa e viola, che ormai il cielo di Parigi conosceva bene si addensò sulle loro teste, o meglio su tutto il cielo della capitale.

Era per quello che lo faceva: per uno scopo più grande, per impedire, o almeno tentare di farlo, a quel misterioso e astratto nemico, di approfittarsi della gente disperata per i suoi scopi. Ecco perché.

Makohon Saga _ Amore A VersaillesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora