Schicksal

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Ciao a tutti!
Come vi abbiamo rivelato di recente,
siamo sempre state in due a raccontare le vicende turbolente dei nostri personaggi da dietro una tastiera,
ma questa volta non sarà così.

Questa storia ho deciso di comune accordo con l'altra ragazza di scriverla da sola.
Poco cambierà per voi, dal
momento che lo stile
sarà grosso modo quello seguito sino ad ora.

Fino a questo momento ho sempre scritto e curato solo il personaggio di Mario, ma d'ora in poi voglio cimentarmi anche con Claudio e vedere cosa ne verrà fuori.
Non vedo l'ora di iniziare e sapere cosa ne pensate.

E allora iniziamo.


Mario

Ore, minuti, secondi.
La vita scorre e noi nemmeno ce ne accorgiamo mentre siamo troppo impegnati a cercare la felicità che pensiamo meritare.
Proviamo ad inseguire la perfezione utopica di quello che vorremmo fosse il nostro futuro ma che, in realtà, non esiste.

Un'intera giovinezza spesso sprecata e poi rimpianta una volta compreso che quel tempo mai potrà tornare indietro, ne nessuno sarà in grado di restituircelo.
Rimorsi e rimpianti che si mescolano con la voglia di fare e, allo stesso tempo, con la paura che ci costringe ogni volta a restare fermi.

Tempo passato a fare cazzate, a bere fino ad ubriacarsi, a ballare nella folla e sudare, attaccati l'uno all'altro, a muoverci come una cosa sola, a urlare ai concerti e prendere due di picche che ci fanno passare nottate insonni, credendo che mai più saremo in grado d'innamoraci.

Nottate passate a vomitare nei cessi di una discoteca, con il tuo mogliore amico che ride mentre ti tiene la testa, e tu che senti il cuore venire fuori dal petto e la musica rimbombare nella cassa toracica, finché poi una mattina ti svegli e tutto finisce.

Arrivano le responsabilità, cresci ed inizia la vita, ma quella vera.

Il suono della sveglia mi trapana il cervello, e cerco a tastoni il telefono sul comodino: "7:30."

"Cazzo" richiudo gli occhi, sospiro e lancio quello stupido aggeggio simbolo della nuova dipendenza del ventunesimo secolo sul letto.

Affondo la testa nel cuscino e scalcio con i piedi le lenzuola.
Odio svegliarmi la mattina presto, odio il freddo di metà ottobre che inizia a farsi pungente, e non sopporto per nessuna ragione al mondo ricevere ordini.

Specialmente se a darmeli è lui, il mio capo.

Non che sia una cattiva persona, ma prende le cose troppo sul serio, mi fa dannare per ogni progetto che sono costretto a rivedere e modificare infinite volte prima di poter ricevere un "potevi fare di meglio, ma è passabile".

Da quando mi sono trasferito a Milano non faccio altro che dannarmi l'anima tra scartoffie, uffici e uomini che hanno sempre qualcosa da ridire sul mio operato.

A volte rimpiango i tempi dell'università, mi mancano quei periodi di stress e leggerezza che si alternavano in una frazione di secondo al punto in cui, non riuscivo nemmeno a distinguerne la sottile linea di confine.

Troppa gavetta ho dovuto fare prima di acquisire una certa posizione nel campo, ma ad oggi sono soddisfatto.
Soddisfatto però, non è uguale a felice.

L'architettura e il design mi sono sempre piaciuti, e lavorare in questo settore è sempre stata la mia passione sin da quando ero bambino.
Se agli altri chiedevano cosa avrebbero fatto da grandi le risposte sarebbero oscillare tra cantante, veterinario, medico o pilota di auto da formula uno, ma io no.

Io ho sempre desiderato essere circondato da matite, squadre e fogli su cui poter raccontare ogni superficie con la creatività che mi ha sempre contraddistinto.

Non è stato facile, ma dopo due anni di apprendistato a Bologna e uno di lavoro ad Amburgo in Germania, sono finalmente sbarcato qui, con un bel contratto a tempo indeterminato.

Ovviamente la mia scelta ha avuto pro e contro, faccio ciò che amo, ma non vedo mai la mia famiglia.
Non che con loro io sia mai andato granché d'accordo, ma a volte mi mancano.
Vivo da solo da quando a diciannove anni ho iniziato l'università a Verona, ed ho imparato con il tempo a badare a me stesso e a procurarmi da solo tutto il necessario per vivere.
Insomma sono cresciuto sbagliando e forse anche sbagliato, ma sono cresciuto e questo è ciò che conta.

Inoltre va anche detto che non ho molti amici e tutti quelli che frequentavo un tempo probabilmente non ricordano nemmeno più il mio volto.

Però sono soddisfatto, mi piace il mio piccolo appartamento anche se è in periferia, il mio posto di lavoro anche se mi costringe in una città cupa, e persino il mio capo mi piace, a giorni alterni e quando riesco a sopportarlo.

Vivo a Milano da cinque mesi, e ancora non ho una routine bene definita, ogni giorno è diverso, ma egualmente impegnativo e stancante.
Spesso la sera rincaso e neppure ceno, mi butto sul letto e crollo, senza nemmeno avere il tempo di riflettere sulla mia vita, ne sul fatto che mi piacerebbe avere qualcuno che mi aspetta a casa, che mi dia un po' di affetto la sera prima di andare a dormire.

A causa del mio carattere schivo non ho fatto grandi conoscenze in questi mesi, eccetto Davide, il ragazzo che vive nel palazzo di fronte al mio e che puntualmente incontro ogni mattina nel bar qui sotto mentre fa colazione con cappuccino e cornetto.
È gentile e solo come me.

Si è trasferito qui da Firenze poco prima di me, ed il suo accento toscano mi piace da morire anche se lui non lo sa perché la maggior parte delle volte mi diverto a prenderlo in giro.

Lavora come sommelier in un ristorante in centro e a volte ci troviamo a casa sua davanti a del buon vino e qualche piatto da lui preparato a scambiare quattro chiacchiere.

Ricordo ancora il nostro primo dialogo.

"Sono due settimane che cerco di capire se riuscirò mai ad entrare nella tua zona comfort o è davvero così inaccessibile" e poi dopo avermi strappato il primo sorriso dopo un mese di solitudine si è seduto di fronte a me.

Quel giorno sono arrivato in ritardo al lavoro, ma la ramanzina che ho ricevuto è stata ripagata dal risotto alla crema di scampi più buono che io abbia mai mangiato in vita mia.

Parcheggio la mia automobile nello spiazzale di fronte alla società e poi raggiungo l'ingresso.

"Buongiorno Sabrina" mi accoglie con il suo sorriso e mi fa cenno con la mano di andare verso l'ufficio del capo mentre continua a parlare al telefono con un cliente.
Alzo gli occhi al cielo e prima ancora di entrare mi preparo psicologicamente ad una nuova predica.

Entro nell'ufficio e lo vedo, appoggiato alla scrivania "ok scusa, è vero ho fatto tardi nella consegna, ma il signor Derin mi ha fatto impazzire per un lampadario di vetro di Murano che nemmeno lui sa come debba essere" alza la mano e mi blocca.

"Mario, ne riparliamo in privato" sbuffo cercando di sfuggire al suo sguardo attento che puntualmente mi fulmina.

"In privato?" mi soffermo su quelle parole e lo guardo con fare interrogativo.

"Lui è Claudio e da oggi voi lavorerete insieme."

Indica qualcuno alle mie spalle ed io mi volto per dargli un volto.

E poi lo vedo.

Du und ichDove le storie prendono vita. Scoprilo ora