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Osservai l'ora: erano solo le otto e dieci, avevamo ancora tempo per arrivare allo stadio di calcio dove si teneva la partita e noi, infreddoliti e semi-nascosti dai nostri cappotti, eravamo seduti in una tavola calda, di fronte ad una birra gelida e un kebab speziato. Il cuoco, un omaccione enorme con una barba nerissima, era del tutto assorto davanti ad un quiz a premi alla televisione, mentre gli altri due avventori della serata, due ragazzi con un turbante viola in testa, sbocconcellavano il loro pasto in silenzio, con un'aria assorta e stanchissima.

In sottofondo, musica araba leggermente ipnotica.

Accavallai le gambe, sporgendomi verso il bicchiere dal collo alto, bevvi un sorso di birra fredda, fissando i miei occhi chiari sui suoi scuri.

E così, quello era il mio insolito sabato sera: se solo mi avessero detto, qualche ora prima, che sarei stata a cena con un perfetto sconosciuto in un locale etnico, non ci avrei mai creduto. 

Malgrado quello che sosteneva Filippo, non ero proprio la persona che si fidava così ciecamente degli altri, non mi lasciavo mai andare subito, malgrado tutto, avevo sempre una parte di me che mi diceva di stare in guardia, di non credere a due parole dolci messe insieme di fila.

Eppure, la sera precedente, non avevo esitato a salire sulla macchina di due uomini che avevo appena incontrato. Eppure ero lì, di fronte a quello che era, a tutti gli effetti, un perfetto sconosciuto.

Ed ero, stranamente, a mio agio.

-Allora - si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia dietro alla testa, rilassato, sereno, come se, per la prima volta, fosse davvero tranquillo.

Era di fronte a me, forse lo vedevo per la prima volta da quando lo conoscevo, perché non era silenzioso, non era adombrato, ma era tranquillo, a proprio agio.

Quella serenità mi diede fiducia, spingendomi a parlare con altrettanta voce ferma, calma, come se quella birra non fosse stata alcool, ma valium, nelle mie vene, fin dentro al mio sangue, come se l'imbarazzo di prima fosse d'improvviso svanito insieme al mio fiume di parole.

-Allora – risposi sorridendo – di cosa mi vuoi parlare?

-Beh, dipende un po' da quello che vuoi sapere.

-Voglio sapere tutto – appoggiai il viso sul palmo delle mani e aggiunsi: - Non fare questi giochetti con me: ormai sono una donna adulta. - Scoppiò a ridere di cuore, scoprendo una fila di denti perfetti, bianchissimi. - Ecco, vedi? Una cosa, di te, l'ho scoperta: quando sorridi così, sei molto carino, sembri quasi una persona vera.

-In teoria, io sono vero - alzai gli occhi, senza dargli troppo peso.

-Lo sai, cosa voglio dire...

-No che non lo so. Sono sempre me stesso, anche se so di essere un po' chiuso. È che ci metto un po' ad aprirmi, noi non ci conosciamo che da poche ore e, di norma, prima di parlare di me stesso, mi piace osservare e farmi un'idea di chi ho davanti, non mi piace dovermi sbilanciare in un senso o nell'altro.

-E... che opinione avresti di me? - chiesi osservandolo al di sopra del mio bicchiere freddo – Sbilanciati, dai.

Mi guardò sorpreso ed aprì la bocca per dire qualcosa, ma rimase in silenzio, osservandomi oltre al bicchiere pieno di birra:

-Non ne ho la più vaga idea: in pratica ti sei buttata nella mia vita. - alzai un sopracciglio, pensando che, in fondo, erano più loro due ad essersi intrufolati nella mia, ma, per il momento, preferii non interromperlo – Non ho avuto molto modo di osservarti, malgrado avessi voglia di passare più tempo a vedere che tipo sei. Vorrei saperti leggere dentro, ma mi rendo conto che non ne sono in grado, che adesso non lo so fare: non ho la minima idea di come sei. Non so se sia un bene o un male, per certi versi mi piace l'idea che tu sia una scatola ancora chiusa e che ti possa osservare da tutti gli angoli, senza inquadrarti fino in fondo. Sei nuova e c'è ancora tutto da scoprire, di te. O almeno, così sembra. – aggiunse in fretta, come se si fosse pentito di aver parlato con una sincerità che non aveva mai avuto nei miei confronti, prima di allora.

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