78

96 7 0
                                    

-Visto che non parli e non ti degni di rivolgermi anche solo una stupida parola, dovrò iniziare io: immagino che, dipendesse da te, potremmo camminare fino al prossimo paese senza aprire bocca – sbottai dopo cinque minuti di silenzio.

Ero stata zitta per qualche minuto, per tutta la vita, trattenendo il respiro, sentendomi inadeguata e a disagio, ascoltando solo il rumore dei nostri passi attutiti dalla sabbia fine, con lo stomaco in gola, sconvolto, sotto sopra. Solo il vento, che, irresponsabile, scarmigliava il mio caschetto e i suoi ricci profumati di tensione e balsamo alle erbe.

Ora volevo qualche risposta.

Diego me ne doveva giusto un paio, non poteva pensare di arrivare lì, sconvolgere la mia vita di nuovo e pretendere che facessi finta di nulla, che rispettassi il suo silenzio, che mi accontentassi di niente, come sempre.

Anche se la verità era che potevamo toccarci senza sfiorarci, potevamo essere una sola cosa anche se lontanissimi, potevamo essere uniti da un sentimento più forte di qualsiasi altra cosa al mondo, più forte del mare in tempesta, della pioggia violenta.

Era il mio amore immenso, era l'unico che poteva farmi sentire bene, vero sole sulla mia pelle, che riscaldava e faceva bene al cuore. Ma era anche un dolore assurdo, senza nome, che feriva fin dentro le viscere: faceva male, dilaniava, era rabbiosamente vivo e concreto, così forte che pareva urlarmi nelle orecchie e cancellare ogni mio pensiero.

Mi sembrava di aver lottato contro di lui da sempre, solo per rendermi conto che non vinceva nessuno, rimanevamo solo noi due, sconfitti, per l'ennesima volta.

Reggevo in mano le mie scarpe da ginnastica, lui aveva tolto le sue, i capelli scompigliati dal vento, la sua t-shirt attillata, doveva aver fatto molta palestra negli ultimi tempi e me ne rendevo conto solo ora, i nostri sguardi distanti, arrabbiati, nervosi, incapaci di vivere la felicità di essere finalmente insieme, dopo mille anni di lontananza, negazioni, negoziazioni, rifiuti, sacrifici e ripicche.

E, ora che era a due passi da me, sentivo ancora qualcosa di inspiegabile ed indefinito, sentivo che non era ca m- biato nulla, sentivo che era ancora parte di me, anima mia, cuore mio, pelle mia: lui era irrimediabilmente roba mia.

Non eravamo arrivati da nessuna parte, se non trovarci lì, a due centimetri di distanza, cercando di ricostruire qualcosa che forse non esisteva più, perché restavano solo lacrime e polvere.

E il suo era il nome di tutto il dolore che mi ero portata dentro da giorni, da settimane, da mesi.
-Parliamo – mi concesse controvoglia.

-Ti ho fatto una domanda e non mi hai ancora risposto.

-Sono qui perché Walter aveva bisogno di un passaggio – ribadì, cocciuto, ostinato.

Era odioso, lo detestavo, non l'avevo mai amato, non era possibile.

L'istinto di prenderlo a schiaffi era fortissimo.

-Sì, lo so, l'hai già detto – risposi seccata, stringendo i pugni.

-E...

-E? - lo incalzai senza cercare i suoi occhi, sapendo benissimo che non avrei retto, sapeva benissimo che sarebbe bastato un suo gesto, una sola parola, per farmi crollare, come sapeva che i miei occhi l'avrebbero tradito, lo avrebbero fregato per l'ennesima volta: lo sapeva, per cui distoglieva lo sguardo e cercava di fingersi distaccato, finse che gli fossi indifferente, finse di essere altro, altrove, ovunque, ma non lì, accanto a me. Ma io sapevo leggerlo, sapevo interpretare ogni singolo movimento del suo viso, sapevo che fingeva e quindi finsi di essere forte, di non avere paura, di non essermi mai sentita sola e disperata e di aver cercato di soffocare i miei problemi con l'alcol, con un divertimento che non divertiva e portando il mio corpo al limite estremo.

SegretoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora