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Parcheggiò l'auto proprio all'ingresso dell'ospedale: ormai quel silenzio ci accompagnava da tempo ed era via via diventato più pesante, opprimente, carico di mille significati a cui non volevamo dare un nome o una soluzione. Scesi dalla macchina e lui mi imitò, appoggiandosi al tettuccio, ma senza fare un passo verso di me., restando solo al di là della macchina, con un'espressione intellegibile stampata in faccia.

Era ovvio che qualcosa, in quelle ultime ore, fosse cambiato.

Non lo amavo meno.

Non mi amava meno.

Ma su di noi incombeva la sensazione di non poter continuare a vivere serenamente, vivendo il sentimento che ci legava.

O l'uno, o l'altra: ci sarebbe sempre stato qualcosa a mettersi in mezzo, a scombinare i piani, a cambiare tutto, perché quell'amore era nato per errore, era stato un errore, non aveva il diritto di vedere la luce del sole, non poteva essere vissuto liberamente, come se niente fosse, come tutti gli altri amori del mondo.

Ci guardammo per qualcosa che potevano essere anni o due secondi, il tempo di prendere le misure del suo viso, i capelli scarmigliati, il cappotto scuro, sulla camicia bianca che metteva in risalto la sua carnagione pallida (era sempre stato così pallido, oppure era sbiancato di colpo?), lo sguardo consapevole, adulto, la bocca rossa, serrata testardamente, gli occhi che parlavano con fermezza, che dicevano mille cose diverse, giustissime, senza nessuna parola, perché la voce mancava.

Mancava tutto, ora che dovevamo allontanarci.

Avrei voluto dirgli che lo amavo.

Che era tutto per me.

Che mi sembrava di non poter neppure respirare senza di lui.

Avrei voluto dirgli di stare bene. Di prendersi cura di sé.

Avrei voluto che mi dicesse di scappare via con lui, di lasciarci davvero tutto alle spalle, di essere egoisti fino in fondo e fuggire, via, lontano, dove nessuno ci poteva conoscere, dove nessuno sapeva niente di noi.

Ma lui non l'avrebbe mai detto e io, probabilmente, non l'avrei mai fatto.

-Vai, ti sta aspettando.

-Io...

-Vai – ripeté annuendo, entrambi sapevamo che era la cosa giusta da fare e davvero Alessandro mi stava aspettando da ore, forse da giorni. Ma le mie gambe non obbedivano: non potevano allontanarsi da lui, non potevo andarmene e lasciarlo lì, senza sapere quando l'avrei rivisto, quando saremmo stati insieme, di nuovo. Non potevo fare un passo, non potevo neanche respirare, non riuscivo a pensare a nulla se non che quell'amore era veramente malato e distorto, perché non poteva farmi soffrire così e continuare ad essere amore.

Quella era una tortura, non amore.

Erano cicatrici, non baci.

Era martirio, non sesso.

Era tutto, ma non poteva certo essere amore.

Eppure il mio cuore mi diceva che non potevo andarmene da lui, non potevo voltargli le spalle ancora, di nuovo, per l'ennesima volta, perché ero certa che, dopo tutto ciò che avevamo vissuto negli ultimi giorni, negli ultimi mesi, nell'ultimo anno, non saremmo potuti tornare indietro: non si poteva amare così tanto e poi fare finta di nulla, non si potevano cancellare i ricordi o le parole già dette, che ancora risuonavano nella mia mente, quasi le avesse appena pronunciate.

-Io... - dissi sempre più in difficoltà. Diego sorrise amaramente, già consapevole, già sicuro, già su un altro mondo, già lontanissimo da me, da quel posto, da tutto.

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