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Avevo tentato in tutti i modi di convincermi di essere in grado di vivere la mia vita in quel modo, ma mi ero trovata a sentirmi di nuovo sola e senza senso, anche in una stanza piena di persone, anche sul tetto del mondo, anche al centro dell'attenzione.

Probabilmente potevo correre, scappare, nascondermi dalla luce del giorno, potevo fare le migliori recite e mentire persino a me stessa, ma il mio cuore restava, in qualche modo suo.

Ancora non avevo capito in quale modo esatto, ma sapevo che c'era un destino che ci univa.
Potevo essere la fidanzata perfetta, potevo sorridere, fare finta che tutto andava bene, ma, comunque, nel buio della notte, mi sentivo morire, sentivo la sua assenza, sentivo tutto come il primo giorno.

Il suo sorriso, la felicità che provavo nello stargli accanto... quanto mi mancavano...

E, giuro, ero stanca di vivere in quel pantano che non mi portava da nessuna parte.

A volte speravo che il suo pensiero mi lasciasse in pace, che se ne andasse una volta per tutte: avrei vissuto nel rimpianto, ma almeno avrei ricominciato da qualche parte.

Ma così...

Era sempre parte di me, qualsiasi cosa succedeva, in ogni minuto, in ogni secondo, in ogni battito d'occhi.

Anche se se ne fosse andato.

Non era facile sbrogliare la situazione, non era facile vivere senza di lui, non era facile neanche vivere accanto a lui, quindi, in quella stranissima estate complicata, caldissima e burrascosa, decisi di affidarmi solo allo sfogo fisico.

Mi alzavo prestissimo, la mattina, mi infilavo pantaloncini, un reggiseno sportivo, un top leggero e le scarpe da ginnastica e correvo per ore.

Letteralmente ore, fino a quando il cuore non mi saliva in gola e temevo mi scoppiasse dentro al petto.

Correvo senza sosta, con le cuffiette dell'Ipod ficcate nelle orecchie, come se non esistesse pausa, sollievo o ristoro.

Dovevo correre per non pensare a nulla: dovevo correre e basta.

Non ero libera, non sapevo che fare, quindi correvo.

Il cuore mi batteva fortissimo fino in gola, ma non importava, l'importante era che il mio cuore esploso in mille pezzi potesse ancora continuare a battere, imperterrito, insensibile, violentato, stranito, incredulo, inerme.

Un cuore a metà, perché l'altra metà era morta e secca da tempo, come un ramo reciso ad inizio autunno.

Ma batteva ancora bene ed ero un'atleta ancora discreta.

Ritornai a casa per l'ennesima volta, mi scaldai il collo con un asciugamano asciutto e, sudatissima, con la mia bottiglietta d'acqua in mano, mossi qualche passo in casa, verso la cucina.

-Non puoi bere e basta – mi voltai di scatto e vidi Diego nel soggiorno. Seduto sul mio divano, con le gambe aperte, l'espressione sfrontata, indagatrice e vagamente di rimprovero, come se il mondo fosse suo e, al tempo stesso, come se ne portasse il peso sulle spalle.

Feci qualche passo indietro, fino a sbattere contro lo stipite della porta.

-Che ci fai qui?

-Mi ha fatto entrare Filippo. Negli ultimi tempi è stato davvero come se me l'abbia chiesto mille volte e probabilmente l'ha fatto sul serio, ma solo oggi mi sono deciso a farlo.

-Perché? - chiesi con aria di sfida, tenendo ben salda in mano la mia bottiglietta d'acqua, bevendone un sorso, quasi la sua presenza, in quella casa deserta, in quella sala dove stavamo solo noi, non fosse importante, non mi turbasse, non mi toccasse affatto.

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