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Martedì arrivò in un soffio, senza nemmeno me ne rendessi conto.

Le magliette erano tutte sistemate, con l'orlo rifilato e gli strappi ricuciti, perfettamente lavate e stirate, impilate con in due sporte giganti che avevo posto con cura accanto all'ingresso, in modo che potesse vederle non appena fosse entrato in casa.

-Mi dai una mano? - chiese Filippo mescolando il sugo della pasta.

-Certo – aprii una bottiglia di vino e versai da bere ad entrambi.

Mi guardò divertito e, scuotendo la testa, disse:

-Sei l'unica persona al mondo che organizza una cena e riesce a far cucinare un altro al proprio posto, senza nemmeno pagarlo.

-Scusa – gli offrii il calice pieno e brindammo come sempre, inclinando i bicchieri e facendoli tintinnare, annuendo l'uno verso l'altra, come in un tacito accordo – lo sai che sono più di impaccio che di aiuto.

-Sì, lo so. Però sarebbe carino se almeno apparecchiassi...

-Ma ho apparecchiato – protestai alzando il bicchiere e bevendo un sorso di vino bianco, leggermente frizzante. 

-Ti prego: buttare lì tre piatti, contando che siamo in cinque senza nemmeno mettere le posate non vuol mica dire apparecchiare.

Sbuffai e finii il mio lavoro, senza dimenticare di mettere il mio cd preferito dentro allo stereo.
La musica invase la stanza e non potei trattenermi dal muovermi al ritmo.

-Dovresti continuare con la danza – Filippo si tolse il grembiule e lo appoggiò con cura su una delle sedie della cucina.

Mi bloccai di colpo e lo guardai come si guardava un alieno.

-Lo sai, non ho più tempo... Almeno non ho più tempo per queste cose.

-E' un peccato: sei una brava ballerina.

-A ventisette anni suonati non c'è più niente che possa fare per fermare il tempo: ballare è passato da essere un sogno ad un passatempo – cercai di tagliare corto, perché quell'argomento ancora mi infastidiva.

Se dodici anni prima non avessi fatto un terribile incidente in macchina che mi aveva costretto a letto per tre mesi, con entrambe le gambe bloccate da fratture multiple, forse la mia vita sarebbe stata diversa.

Forse sarei stata una ballerina.

Forse no.

Al diavolo, lo sarei stata: una importante compagnia di danza di Milano mi aveva già contattato per offrirmi uno stage e, all'epoca, avevo solo quindici anni: avevo ancora tutta la vita davanti e la mia insegnante non smetteva mai di dirmi che potevo farcela.

Ma le mie pirouettes e i miei sogni da etoile si erano schiantati contro il pilone di una tangenziale qualsiasi, dopo un giorno qualsiasi, con gente qualsiasi accanto a me.

Io avevo riportato le ferite più gravi.

Tutti gli altri se l'erano cavata con qualche graffio e tanta paura.

A me la paura era passata, ma i graffi li portavo ancora dentro e, con ogni probabilità, me li sarei portati dentro per sempre.

Inutile dire che i miei genitori avevano fatto a gara per riempire la stanza dell'ospedale dove ero ricoverata di mille fiori, palloncini, peluche, cd, vestiti, dolcetti e mille altre cose di cui non avevo bisogno.

All'epoca erano ancora sposati: la loro separazione era comunque alle porte, lunghissimi anni di guerre e ripicche, intervallati da riappacificazioni fugaci e distacchi che, col passare del tempo, diventavano da dolorosi e lancinanti, a normale routine.

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