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Dormii come non dormivo da tempo: un lungo sonno ininterrotto senza sogni.

Aprii gli occhi, sbattendo le ciglia più volte, cercando di adattare la vista alla penombra della stanza, svegliata da uno strano rumore contro le finestre che, subito non riconobbi: mi alzai in piedi a fatica, con le gambe ancora doloranti per lo sforzo del giorno precedente e, con la mano, scostai leggermente la tenda.

Fuori diluviava.

Il mio tempo ideale: pioggia scrosciante che sbatteva furiosamente contro il vetro chiuso della finestra, scivolando giù in rivoli d'acqua densi come lacrime.

Probabilmente, ero l'unica persona al mondo felice di passeggiare sotto la pioggia senza ombrello, di sentire l'odore dell'asfalto bagnato, di avere le scarpe con la punta inzuppata e l'umidità fin dentro alle ossa.

Mi preparai per andare al lavoro al ritmo di musica punk, mi truccai pesantemente ed infilai un paio di stivali alti e neri, che mi coprivano metà gamba.

Nessuno, a parte me, l'avrebbe mai notato, ma ero in grado di adattare il mio look al meteo del giorno.

E, forse, ero davvero un po' meteoropatica.

Al contrario, ma lo ero.

L'estate mi faceva venir l'ansia: mi sentivo in obbligo di dovermi divertire ad ogni costo, di andare nella spiaggia più alla moda, di frequentare almeno due ragazzi al tempo stesso, di abbronzarmi e tenermi in forma. Di essere sempre al passo coi tempi, di uscire tutti i giorni, bere, far tardi, ascoltare musica che detestavo ad alto volume. L'estate metteva a dura prova il mio equilibrio mentale.

Molto più comodo l'inverno, durante il quale non dovevo trovare scuse per rintanarmi in casa sotto due strati di piumone, ad ingozzarmi di pop corn fatti al microonde. Non dovevo per forza avere un ragazzo, perché le giornate erano corte e, dopo un giorno di duro lavoro, potevo tornarmene a casa senza dovermi per forza imbellettarmi, prepararmi o stirarmi i capelli.
Eppure quell'inverno era strano.

Quell'inverno era, per me, un'estate atipica.

Avevo il mio meraviglioso ragazzo spettinato, pieno di piercing e tatuaggi. Il mio uomo sexy e selvaggio, che comandava un'azienda, che allenava una squadra di calcio, che aveva mille interessi e lati affascinanti, che aveva rubato il mio cuore, tutti i miei pensieri, che mi toglieva il respiro, mi faceva impazzire. Il mio uomo con la voce profonda, il sorriso sbarazzino e malandrino, il mio uomo affascinante e sensuale, forte e di polso, pazzamente innamorato di me, che mi mandava messaggi al miele, che mi faceva ridere, che riusciva a dare un senso a tutto quello che avevo fatto fino al giorno in cui l'avevo conosciuto, che riempiva tutti i miei giorni, minuti, secondi. Avevo nuovi amici.

Avevo, per certi versi, il secondo ragazzo della situazione: quello che mi faceva divertire, che mi portava in giro a fare shopping, a pattinare, che riempiva il vuoto che Alessandro aveva lasciato, suo malgrado, nella mia vita.

E, cosa più importante di tutte, non mi sentivo più incompleta, non dovevo più combattere contro nessuno, perché, per la prima volta da non sapevo nemmeno quando, mi sentivo a posto con me stessa.

Uscii di casa di buon umore, incurante della pioggia che innervosiva tutti, perché a me rendeva solo felice.

Volevo fare due passi, mi sentivo bene e quella pioggia, finalmente, riusciva a lavar via la neve sporca e malsana ai lati delle strade. Saltellai per le scale fino al portone che aprii di scatto, mettendomi sul marciapiede dove sgocciolava, lenta, la pioggia.

La città era in pieno fermento da sabato mattina: vecchiette con la borsa della spesa, coppie felici a passeggio, madri che trascinavano figli controvoglia a scuola, signore bene che facevano colazione al bar.

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