L'orologiaio

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Non appena fui fuori, la prima cosa che catturò la mia attenzione fu proprio il gigantesco rettangolo grigio che sovrastava le porte del negozio dell'orologiaio. Ma come si chiama il negozio di un orologiaio, orologeria? Poteva anche darsi. Ecco un buon motivo per entrare, andare a chiederlo direttamente al proprietario.

Così mi posizionai di fronte alla spessa porta di legno a vetri opachi, simile a quella che ogni tanto vedevo nelle farmacie più antiche, e la spinsi lentamente verso l'interno. Entrai lentamente. Le assi del pavimento, come in un film dell'orrore, scricchiolarono. Dovetti compiere almeno un paio di passi prima di accorgermi che a fare quel rumore stridente ero veramente io, ed allora fu come se mi si fosse infilato un insetto sotto la pelle, provai un fastidio tremendo.

Cercando di non pensare allo scricchiolio, chiusi cautamente la porta dietro di me e mi accorsi che dentro il negozio, più ampio di quanto immaginassi, molto profondo, regnava un'oscurità ambrata che sfumava nel nero intenso, il nero indistinguibile, laddove avrebbe dovuto esserci il bancone dietro cui, in teoria, avrebbe dovuto sedere paziente il padrone negozio.

L'odore che regnava nell'aria era quello del metallo, probabilmente a causa degli ingranaggi, polvere e smalto, lacche commerciali e un sacco di altri odori più sfumati di cui non riuscii ad identificare chiaramente la fonte.

Quel posto era sinistro, più che il regno dell'orologiaio sembrava quello del becchino, solo che non c'erano bare appoggiate ai muri ad aspettarmi, neanche un cadavere e nemmeno fiori o odore di fiori.

Anzi, se fossero state bare, quelle ai muri, le avrei accolte con gioia. No, quello che mi accolse erano decine e decine di orologi appesi alle pareti, alcuni grossi come padelle, altri più piccoli, come piatti per la pasta o piattini da caffè, rotondi, quadrati o alcuni, del tipo che non avevo mai visto, a forma di massicci parallelepipedi e di legno massello, con in cima una finestrella chiusa.

Nel silenzio snervante, nella luce soffusa, il ticchettio perfettamente sincronizzato ed incredibile di tutte le loro lancette era inquietante.

Tic tac. Tic tac. Tic tac.

Ebbi l'impressione che i tic e i tac andassero a coppia. Pensai, e forse fu un pensiero paranoico, che mentre loro erano in coppia, io ero completamente sola. Mi sentii gelare e i peli si rizzarono istintivamente dietro la nuca, tanto che quando ci passai la mano trovai uno strato ritto e morbido come la pelliccia rada dei cuccioli.

«C'è nessuno?» chiesi, ma non ebbi risposta se non, ancora una volta, quel sinistro ticchettio.

Chi era quel pazzo che lasciava il negozio incustodito? E se io, casualmente, avessi deciso di fregarmi una decina di orologi, come effettivamente stavo pensando di fare? Beh, non tutto il male viene per nuocere...

Mi avvicinai a quel grosso orologio massiccio a forma di parallelepipedo, con un tettuccio da casetta di sopra, e sotto quella curiosa finestrella. Allungai le mani per staccarlo dalla parete, poggiai i polpastrelli sulla superficie perfettamente levigata e smaltata del legno di noce, apprezzando dei decori che non si vedevano semplicemente guardandolo davanti, ma che ornavano la parte posteriore del tetto.

Poi, proprio mentre iniziai a tirare, una voce scoccò la sua accusa nel buio

«Stai rubando!».

Lasciai andare di scatto l'orologio, che, pesante com'era, schizzò verso il basso, Attesi il rumore del tonfo contro il pavimento e del legno che si spaccava in mille piccole schegge, ma quel suono non venne mai.

Guardando in basso, mi accorsi che l'orologio era sparito, rialzando lo sguardo lo vidi di nuovo lì accanto a me.

Ora, non è normale che gli orologi se ne vadano a spasso per conto loro, tanto più volando, non credete? Feci un paio di passi indietro, e questa volta il pavimento non scricchiolò. Le assi scricchiolanti dovevano essere per forza solo quelle dietro la porta di entrata.

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