Capitolo 5

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Fa male. Il peso del corpo spinge contro le protesi che mi hanno fornito. Non potrò più correre, camminerò occasionalmente. Manca un solo giorno alla scadenza che mi ha dato la Snow e ancora non riesco a percorrere tutto il perimetro della cella. Markus è immobile dall'altra parte delle sbarre. Le spalle larghe sono poggiate al muro di pietra scura e fredda mentre si sorregge la testa con la mano sinistra. Le sue palpebre sono basse e le sue folte ciglia gli sfiorano gli zigomi aguzzi. Non riesco a capire se sia sveglio o se stia riposando. La catena lo tiene ancora legato come un cane e ad ogni suo respiro si sente un leggero tintinnio. È in silenzio da quando mi ha vista con questi pezzi di plastica e metallo al posto di ossa e carne. Le scottature si sono ormai ridotte a semplici segni bianchi. È ovvio che anche la loro cicatrizzazione sia programmata. È passato troppo poco tempo perché siano completamente guarite. Quanto sarò stata via? Un giorno o due? No, è impossibile che non gli facciano più male.

Non lo so. Non lo so come dovrei camminare. Le protesi sono lisce e non si piegano all'altezza delle ginocchia. La fatica che faccio per provarci è indescrivibile. Cerco di sollevarmi con la sola forza delle braccia aggrappandomi disperatamente alle sbarre per poter fare un solo passo. Sento i muscoli tesi sotto la pelle. Percepisco lo sforzo eccessivo dal dolore di essi. L'unica fortuna è quella di essere dimagrita per la malnutrizione.

Ed ecco che l'uccellino, provando a volare, cade a terra con un tonfo, proprio come me. Urlo per l'esasperazione, urlo per il dolore, urlo per lo sfogo.

"Avrei dovuto convincerti." mi giro verso Mark che ha ancora gli occhi chiusi "Era una pazzia. Dovevo convincerti che era così." finalmente le sue palpebre si aprono con un tremito leggero. Le luci calde giocano con le sue iridi e con le sue ciglia. Ombre filiformi strane vengono proiettate sul muro freddo mentre il Pacificatore si rimette in allerta.

"Mark, non credo sia il momento di..." due lacrime gelide attraversano le guance bollenti mentre cerco di parlargli.

"No, invece. È il momento giusto. Bisogna cogliere l'attimo come diceva Alexa. Però aspetta." fa una breve pausa "Mi sto tanto preoccupando che sia stata colpa mia, quando la vera causa di tutto sei stata tu."

Un tuffo al cuore. Come se qualcuno lo avesse preso e lo stesse stringendo con tutta la forza che ha mentre tanti piccoli aghi lo stessero perforando.

"Come darti torto?" riesco solo a rispondere dopo qualche attimo di silenzio "Sì, è vero. La colpa è mia. Non avrei mai voluto trascinare dentro questa faccenda né te, né Haymitch, né Johanna, né Mitch. Però eccoci qui." Mi copro il volto con la mano sinistra e sospiro. Socchiudo gli occhi. Le ciglia mi solleticano il palmo mentre altre lacrime rinfrescano il viso che credo sia paonazzo.

"Eppure è successo e ora siamo qui. Tre di noi sono morti e due sono intrappolati. L'unico modo in cui probabilmente usciremo è dopo essere stati uccisi. Di torture ne abbiamo subite e ne subiremo inesorabilmente delle altre. Ti sei fidata di certe persone solo perché hanno detto di adorare i tuoi genitori e solo perché ti piace essere considerata importante quando alla fine non sei nessuno!" scandisce l'ultima parola con brutalità.

La mano destra raggiunge il volto e mi oscura totalmente la vista. Vorrei spegnere il cervello. Vorrei disabilitare tutti i sensi per non sentire nulla, mi chiedo se un giorno sarà mai possibile. Devo forzarmi a utilizzare questa energia negativa per produrre qualcosa di utile. Rialzarmi, per esempio, ma quante possibilità ho di farcela?

Respiro. Una volta, due volte, tre volte. Cerco di stabilizzare la mia mente. Respiro profondamente ancora una volta. I palmi delle mie mani si chiudono attorno alle sbarre rese del colore del rame dalla ruggine con rapidità. Il mio corpo scivola sulla pietra fredda mentre i muscoli delle braccia tentano di sollevarlo.

𝐇𝐮𝐧𝐠𝐞𝐫 𝐆𝐚𝐦𝐞𝐬-𝐋'𝐮𝐥𝐭𝐢𝐦𝐚 𝐚𝐫𝐞𝐧𝐚Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora