Capitolo 12 ➳ "In psichiatria"

2.1K 131 5
                                    

Purtroppo arrivò il momento in cui dovetti uscire dall'ospedale, sotto guardia della polizia di Lauren. Entrai nel camion, e fui portata, di nuovo, nel campo di concentramento.

Cercai una posizione comoda : il fianco destro lo avevo ancora dolorante, lì dove avevo ricevuto lo sparo; ma purtroppo non potevo lamentarmi. Anzi, avrei dovuto ringraziare Lauren per non avermi fatta morire sul pavimento. In fondo l'avevo baciata, e ancora mi chiedevo perché non fosse stata lei a spararmi. D'altronde, lei odia i gay, no? Perché non mi aveva uccisa? La risposta era semplice, eppure i suoi improvvisi movimenti bruschi e violenti mi confondevano le idee. Quella ragazza era un vero e proprio controsenso. Non la capivo. Era bipolare... e imprevedibile.

Quando fui deportata nel campo di concentramento, era già notte : erano passate delle ore prima di ritornare lì, era un posto isolato, sicuramente non era nemmeno a Miami. Quel luogo per me era sconosciuto.

Quando fui dentro il campo di concentramento una guardia mi tolse le manette con poca delicatezza e voglia, e in quel momento erano ormai le ventidue e dieci. Quindi tutti sarebbero dovuti essere a dormire, e le lastre di ferro a terra confutavano soltanto quella mia ipotesi.

Quando fui libera, camminai verso una delle poche lastre di ferro, pensando che magari, il giorno dopo avrei parlato con Normani e Dinah. Forse avevano saputo o sentito il mio mio incidente, quindi non volevo allarmarle più del dovuto. Quella sera però era meglio andare a dormire. Lauren non mi avrebbe più salvata dai guai.

"Vai dritta in psichiatria" disse una guardia alle mie spalle, tirandomi dai polsi per ammanettarmi, mentre mi spingeva avanti con il suo busto per portarmi all'interno dell'edificio.

"Cosa?!" urlai. "Perché?!" fui impulsiva, e molte persone si svegliarono per colpa mia. Le guardie invece mi osservavano a distanza, pronte per attaccarmi.

"Dovresti già essere a dormire" disse lui, eppure sapevo che quella era soltanto una scusa. In fondo, le guardie ci odiavano, e le persone che odiano non ragionano quando di fronte hanno la persona che non sopportano.

"Non ha senso" dissi io, quando lui mi fece entrare nel corridoio de piano terra dell'edificio. "Voglio parlare con Jauregui" dissi, cercando di divincolarmi, ma lui era troppo forte e le manette non erano d'aiuto.

"Con lei non parlerai proprio" disse lui, facendomi entrare in una delle tante stanze di quel corridoio. "Resterai in psichiatria per due settimane. Sia notte che giorno. Non mangerai per questi quattordici giorni e non uscirai dalla stanza se non sotto il controllo di una guardia che la psichiatra ti segnerà. Ovviamente la psichiatra sceglierà se e quando potrai uscire" strappò il foglio in cui aveva scritto alcune cose mentre parlava.

"Qualcosa non va?" domandò una ragazza che entrò nella stanza sciogliendosi la coda. "Oh, un'altra vittima" notò, con un sorriso sulle labbra mentre sistemava il suo elastico su un suo polso.

"Qua c'è scritto tutto, Keana" disse la guardia, dandole il foglio. Poi si avvicinò a me e mi tolse le manette.

"Bene bene" disse Keana, quando la guardia era ormai andata via. "Cosa hai fatto per beccarti questo?" chiese, alzando lo sguardo dal foglio.

"Niente!" urlai, lasciando cadere le braccia ai miei fianchi con impazienza e rabbia. "Per una volta che non ho fatto niente!" urlai.

"Per una volta?" alzò un sopracciglio con divertimento.

"Sì!"

"Aspetta. Eri tu quella che aveva rimorchiato Jauregui in ufficio?" domandò e io annuì. "Cazzo, adesso capisco tutto" disse, privandosi del cappotto per sedersi vicino alla sua scrivania, piena di fogli e farmaci. Cercò qualcosa, a me sconosciuto, e quando trovò una pila di fogli collegati tra loro con una griffetta, iniziò a sfogliargli.

"Perché?" domandai, e in quel momento potei soffermarmi sui particolari di quella stanza : era rettangolare, e non c'era molto all'interno. Soltanto qualche vetrina per farmaci, la scrivania della psichiatra, con sù le varie scartoffie, un lettino e... una corda? Perché c'era una corda legata al letto? Non feci domande.

"Beh, diciamo che è stato lui a spararti e inoltre credo proprio che sarà il futuro principe nonostante Jauregui non accetti molto questo. Purtroppo i suoi genitori comandano e vogliono che si sposi presto. Non so perché ma è così" disse e da quelle informazioni intuì che Lauren non andasse molto d'accordo con i suoi genitori.

"A che servono?" domandai titubante, indicando le corde vicino al cuscino, che cercava di nasconderle nonostante fossero ben evidenti.

"Oh, sì quelle. Servono per non farti scappare" disse con tranquillita, ritorando a dedicarsi alle sue scartoffie.

Io deglutì, intimorita, fissando quelle corde come se fossero qualcosa di orribile. In fondo era la stanza psichiatrica, quindi anche se il resto della stanza faceva sembrare la camera rassenerante o almeno... normale come una stanza di un pediatra, sapevo benissimo che sotto sotto c'era qualcosa di orribile che non si voleva mostrare subito. Forse le persone, entrando lì si sentivano al sicuro, soltanto per poi... urlare dal dolore e uscire da lì pazzi.

"Stai tranquilla, piccola Mila. Se mi ascolterai, forse potrò farti stare davvero molto bene" disse lei, distraendomi dalle corde così tanto magnetiche ai miei occhi. Lei sorrideva, ma non capivo se fosse cinica, scherzosa o sincera.

Homophobia ➳ CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora