Capitolo 30 ➳ "Solo cinque giorni"

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Camila Cabello

Ero chiusa in una stanza, quadrata, senza finestre nè qualcosa per ammazzare il tempo. L'unica cosa che era presente nella stanza era una lampadina che di tanto in tanto si spegneva o si accendeva. A volte era inquietante.

Non capivo che ora fosse, che giorno era, se era mattina, pomeriggio, sera o notte. Il mio sonno era andato via. Ogni volta che la mia testa crollava, sobbalzavo e tremavo. Forse avevo paura, non so dirvi.

L'unica cosa che sapevo era che mi rimanevano cinque giorni prima di scontare la mia pena. Sì, gli ultimi cinque giorni per vivere. Il problema era che non sapevo nemmeno che giorno fosse. Io non capivo. Il tempo andava così lento per me, che sembravano essere passati mesi. Tanto che, appena sentivo dei passi nel corridoio oltre la porta, io iniziavo a tremare e a piangere, credendo che fosse arrivato il mio giorno. Ma non arrivava mai, e non sapevo se essere felice o no di questo. Era meglio morire o cotinuare a vivere con il terrore? Non lo sapevo, ma le mie mani chiedevano disperatamenre contatto fisico. Chiedevano aiuto, amore, attenzioni. Chiedevano una stretta, un consiglio. Chiedevano Lauren. La ragazza dagli occhi verdi con cui avevo passato davvero poco tempo. La persona di cui ero pazzemente innamorata, e la persona con cui avevo trascorso poco tempo, troppo poco.

Mi chiedevo se sarebbe finita così la nostra storia. Mi chiedevo se sarebbe finita come le altre storie. Le storie di chi aveva vissuto nel campo di concentramento. Le storie di chi non era mai pronto per morire. Di chi, non sapeva quando sarebbe successo. Di chi, si chiedeva perché. La domanda, che tutti si rivolgevano, era perché.

Perché il mondo deve fare distinzioni? Siamo tutti in questa terra. Allora perché uccidere quelli diversi?
Se siamo qui c'è un motivo.
Vogliamo soltando essere amati e amare. Perché toglierci l'unica cosa che forse ci rende uomini?

Io non capivo molte cose, ma quando mi misero lì dentro, mi resi conto che forse avevo sottovalutato il termine campo di concentramento, forse, Lauren me l'aveva fatto dimenticare. Sì, il terrore lo avevo, ma se aveste visto gli altri, vi sareste resi conto che sembravano dei morti che camminavano. Io, invece, credevo che ci fosse una speranza, e quella speranza l'avevo attribuita a Lauren. Io, forse, ero stata egoista. Perché, come sempre, ero sfuggita al mio destino. Perché, credevo che fossi scappata da quell'inferno, completamente. Ma non mi ero resa conto che le fiamme le avevo ancora addosso. E mi stavano lacerando. Lentamente.

In quella piccola stanza, sentivo soltanto i miei respiri, e sentivo come la sensazione di poter essere, improvvisamente, soffocata. Avevo paura che il mio respiro si potesse fermare, che i miei polmoni non si potessero più gonfiare e il mio cuore non potesse più dare amore.

Forse la storia tra me e Lauren era finita in quel modo : l'amore incompreso e confuso di due persone che non sono destinate a stare insieme.

Io lo avevo capito : il mio egoismo, la mia abitudine di saltare i programmi, il mio voler sempre scottarmi sul fuoco, e la mia voglia di far scottare Lauren con me; aveva avuto una sua pena.

Adesso, ero lì dentro. Lauren, e chissà dove.

Il nostro amore forse era finito così, e non avrei dovuto lamentarmi.

Questo tipo di amore ti lacera soltanto. Un po' come quando accendi una sigaretta e vedi fin quando il fuoco possa durare prima che si spenga totalmente e lasci spazio alla cenere.

Quel tipo di amore, era peccato, o così credevano tutti. E quel tipo di amore, in una condiziome sociale di quel genere, poteva soltanto morire, o bruciare, fino a perdere il suo senso.

L'amore, non può sempre sopravvivere a tutto. Non siamo nelle fiabe. Non siamo in nessun film. Nemmeno in quelli drammatici, nemmeno in quelli che imitano le situazioni nei
campi di concentramento.

Io dovevo capirlo. Non ero una bambina. Non potevo buttarmi nel vuoto e sperare di trovare il suolo.

Non potevo scappare dal destino.

Infatti, proprio in quel momento, la mia mano sbattè tre volte contro il metallo della porta, richiamando una guardia poco dopo.

"Cosa vuoi?" domandò la guardia, e io fissai le mie mani, pensando alla conversazione che avevo avuto con una guardia prima di entrare lì dentro.

Non potevo scappare dal mio destino, senz'altro, ma potevo accontentarlo.

"Voglio farlo" mi limitai a dire.

Nella mia mente chiesi perdono.

Homophobia ➳ CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora