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Il corsetto nero della mia nuova divisa da lavoro, metteva in risalto la mia pelle lattea dall'incarnato lunare. Le sue dimensioni limitate mi rendevano arduo anche solo far raggiungere l'aria ai polmoni momentaneamente compressi da quel tessuto in Jacquard Lace.
Questa era forse una delle sfumature meno piacevoli che avrei dovuto accettare per tenermi stretto il mio nuovo impiego al 검은 달, chiamato anche Black Moon. D'altronde l'oscurità ed il mistero che spiravano in quel posto rimandavano perfettamente all'immagine di una luna nera.
Vagavo con il vassoio in mano ripensando al motivo per cui Dae-Hyun scelse me. Diceva che la luce che la mia figura emanava quella mattina, lo aveva fatto rimanere sorpreso, trovandoci alcune gocce di purezza ed innocenza di cui lui aveva insaziabilmente bisogno.
Per svolgere questo lavoro in un contesto del genere, l'unico requisito che dovevi possedere era la fiducia, la fiducia del tuo silenzio.. e la mia immagine gliene aveva già parlato senza il mio consenso.
«Ascoltami bene, devi stare molto attenta questa volta. Vai a servire al reparto numero 27. E cosa più importante, bocca e gambe chiuse. Non metterti in casini in cui non posso tirarti fuori!»
La prestante struttura corporea di Dae-Hyun si affiancò alla mia, facendomi risultare minuscola nonostante i tacchi che calzavo mi regalassero qualche centimetro di altezza in più. Le parole che mi aveva sussurrato un attimo prima, mi paralizzarono il cuore. Da quando lavoravo lì dentro non mi aveva mai fatto una raccomandazione simile, il che mi mise in guardia e sull'attenti all'instante.
Una delle regole stipulate dal contratto che firmai prima di mettere piede in quella giungla, citava una voce riguardante il contegno che richiedeva il mutamento del comportamento dell'addetta al lavoro simile a quello di un fantasma. Ma a causa del vestiario a volte risultava abbastanza difficile passare inosservate, e questo Dae-Hyun lo sapeva bene, anzi.. lo aveva escogitato apposta per favorire non solo gli affari ed il gusto, ma puntava a deliziare persino gli occhi dei suoi clienti. Ma d'altro canto stava attento a non trasformare quel luogo in un locale a luci rosse, disponendo un accordo con ognuna delle sue impiegate per precauzione. Il nostro unico obiettivo doveva essere servire il nostro cliente per poter soddisfare al meglio le sue esigenze culinarie. E nota più importante, senza aprir bocca od intrometterci nei loro affari, saremmo dovute sparire al più presto possibile in modo da non disturbare o contaminare la loro privacy. Tutto sarebbe terminato lì.
Ma non quella notte.
La placca rifinita in oro esponeva il numero 27 e se ne stava lì saldata su quella porta laccata di un nero fulgente, che mi fissava impaziente di essere aperta.
Riesaminai ancora una volta il modo in cui Dae-Hyun mi aveva ripresa, facendomi capire che qualcuno di davvero importante per lui e per i suoi affari si trovasse proprio lì dentro. Questa riflessione mi fece assaporare nuovamente il timore su chi sarebbe stato il mio cliente della notte. Notando la mia esitazione, Dae-Hyun mi lanciò un'occhiata incitandomi ad entrare per prendere le ordinazioni.
La maniglia in acciaio girò sotto la mano destra e lasciai chiudere la porta alle mie spalle.
Vi era un piccolo corridoio in cui aleggiava una luce cangiante tra il blu, il rosso ed il verde.
Due uomini intenti a giocare attorno ad un tavolo da biliardo interruppero la loro partita voltandosi ad osservarmi, così come fecero gli altri tre che stavano assistendo al match. Il tutto si prolungò per una ventina di secondi, fin quando uno di loro si decise ad indicarmi con un cenno della testa di dirigermi verso una tenda formata da catenelle dorate alla loro destra.
Ignorando i loro sguardi esplorare impudicamente il mio corpo, mi inoltrai verso quella direzione. Ostentai la prima volta, ma presi tutto il coraggio che in realtà non avevo e mi comandai di aprirla.
Mi arrestai subito all'entrata non sapendo esattamente cosa fare nella situazione che mi si piazzò davanti. Nonostante ci fosse una distanza ben evidente che non mi permetteva di vedere al meglio il volto dei presenti in quella stanza, riuscii a captare che si trattava di un ragazzo giovane discutere animatamente contro un uomo di età sicuramente maggiore alla sua.
Quel ragazzo seduto sulla sua scrivania controbatteva l'uomo più grande che si trovava di fronte a lui accomodato su una sedia. Talmente presi dalla conversazione, non si accorsero di non essere più soli.
Come mi era solito fare, ascoltai senza aprir bocca in attesa degli ordini ed abbassai lo sguardo, trovando interessante quel pavimento di cui ormai ne conoscevo ogni centimetro a memoria.
«Le condizioni sono queste!»
Il pugno dell'uomo più grande si schiantò contro la cattedra che lo separava dal più giovane.
«Ma ci vorrà troppo tempo, padre.»
Il ragazzo che si rivelò essere il figlio si alzò dalla sua poltrona obiettando per l'ennesima volta le decisioni del capofamiglia, che apparvero ipoteticamente restrittive malgrado non sapessi di cosa si trattasse.
«Allora sarà meglio per te iniziare fin da subito.»
Senza aggiungere altro, l'uomo che era ancora seduto su quella sedia si alzò e diede le spalle al proprio figlio, inoltrandosi poi verso la mia direzione. Fu naturale per lui sorpassarmi e sparire dietro di me senza degnarmi minimamente di uno sguardo.
Con un cenno di rassegnazione, il ragazzo più giovane sprofondò sulla sua poltrona e voltandosi mi regalò la spalliera come unica visuale.
Riuscii a sentire i suoi respiri severi dettati dalla rabbia che fluiva ancora all'interno del suo sangue.
Quella era la prima volta in cui ebbi davvero timore di servire un cliente, e l'idea che adesso eravamo rimasti da soli in quella stanza poco illuminata e lui era ancora furioso, non fece altro che pronunciare il mio attuale stato di tensione.
Rispettando il contratto attesi silenziosamente in disparte con la speranza che quella persona non si accorgesse mai della mia presenza, o che magari, lo avrebbe fatto non appena la sua rabbia fosse evaporata del tutto.
Ma il mio corpo mi tradì dando vita ad un piccolo starnuto che fuoriuscì dalla mia bocca. La scia di profumo lasciata dal padre mi aveva quasi bruciato le narici. Doveva trattarsi di un eau de parfum essendo molto intensa, direi estrema. Cercai disperatamente di attutire il suono causandomi ulteriore irritazione al naso per essermi murata la bocca con le mani. Azione che non servì a nulla, non appena mi accorsi che il ragazzo stava girando lentamente la poltrona verso la mia direzione.
Atterrai immediatamente il mio sguardo al suolo per non farlo incontrare con il suo, che secondo la clausola 3 del contratto simboleggiava esplicitamente la subordinazione ed il rispetto delle cameriere nei confronti del rispettivo cliente. In un mondo di dominii, era tutto regolarmente nella norma.
«Sei qui per prendere ordinazioni?»
Quella voce che non avrei più voluto sentire urlare, si fece spazio all'interno delle mie orecchie, ma con mia sorpresa cambiò radicalmente. Si era mutata in una forma tenue, cauta, e leggermente roca a causa del suo innalzamento di tono durante la sfuriata avuta un attimo prima con il padre .
«Sì, oraboni.»
Così era come mi era stato imposto da Dae-Hyun di chiamare quel cliente, ma non ebbi il tempo di chiedergli cosa significasse. Solitamente i nostri habitué venivano chiamati diversamente, "sonnim" ad esempio.
Con lo sguardo puntato ancora al pavimento, vidi i piedi del ragazzo attaccarsi totalmente ad esso ed iniziare a dirigersi verso di me, ma mi sbagliai in quanto si fermò davanti alla sua cattedra, poggiandosi su di essa ed infilandosi le mani nelle tasche nere dei jeans.
Con un leggero calcio spinse la sedia dove era seduto prima il padre e la spostò in modo da farsi spazio tra la postazione e lui. Sussultai per il rumore, ma cercai di contenermi al massimo sentendo improvvisamente gli occhi del ragazzo navigarmi addosso.
«Siediti.»
Non mi era mai capitato di ricevere un'ordine del genere prima. Nessuno lì dentro mi aveva mai comandato di compiere un'azione non inerente alle ordinazioni di cibo o bevande.
Ripensai alle parole affilate di Dae-Hyun prima di entrare nella stanza numero 27, ma nella mia vita non avevo mai permesso a nessuno di darmi delle imposizioni senza il mio consenso, specialmente dopo aver abbandonato la mia casa. Forse fu la curiosità di ciò che sarebbe avvenuto dopo, a spingermi ad obbedire.
Guardai i miei passi lenti dirigersi verso quella sedia che distava a pochi centimetri dal corpo del ragazzo. Gli unici suoni udibili erano il ticchettio dei miei tacchi schioccare sul parquet nero che faceva pendant con il mio outfit, e la musica del locale di sottofondo che rimbombava in lontananza. Adagiandomi sulla sedia con la massima accortezza e discrezione, presi la posizione più eretta possibile a causa della mia costante agitazione interna che mi immobilizzava come una bambola di porcellana, in attesa di ciò che quella serata aveva in serbo per me.
«Che ne dici di mostrarmi il tuo viso, eh?»
L'intonazione della sua voce iniziò a farsi più decisa e la cosa non mi piacque affatto.
Pensai per un secondo se obbedire nuovamente o rifiutarmi di farlo, ma ormai avevo deciso di sottostare a lui dall'istante in cui il mio posteriore aveva toccato il cuscino rosso di quella sedia. La curiosità mi aveva portata a quel punto. Avrei retto tutto fino alla fine.
E fu lì, proprio quella notte ed esattamente su quella sedia, che realizzai di quanto la mia vita fosse stata troppo monotona fino a quel momento. Finalmente avvertii il brivido di qualcosa di diverso. Quella stessa paura di ciò che si sarebbe manifestato in quella stanza, era la stessa paura che mi stava facendo sentire di esserci anch'io su questo pianeta. Di essere viva.
Perdendomi in questa riflessione, non mi resi conto di aver perso troppo tempo ad obbedire alle sue indicazioni. Una mano calda si posizionò sotto il mio viso artico, forzandomi a protendere la testa e lo sguardo verso la persona che avevo davanti e che si era inaspettatamente avvicinata per perlustrarmi meglio.
Ciò che i miei occhi dovettero guardare, fece sparire per un attimo tutte le mie preoccupazioni.
In tutta la loro pienezza, due labbra rigogliose dall'aspetto lussurioso e prominente, furono la prima cosa con cui feci conoscenza. Il rossore naturale che le rivestiva le rendeva ancora più inconsapevolmente seducenti ed invitanti. La piccola curva che sporgeva sulla lunghezza del suo naso a punta larga lo rendeva perfettamente proporzionato al suo viso. Una mandibola tagliente come un diamante sfolgorò la mia visuale, permettendomi di studiare in maniera più dettagliata quella pelle chiara che appariva priva di imperfezioni, esponendo solo tre piccoli segni di bellezza scuri circolari, che sembravano formare una costellazione triangolare sulla sua fronte. Altri ancora erano sparsi tra clavicole e collo. Uno in particolare richiamò la mia attenzione, ed era situato vicino al suo pomo d'Adamo. Ma non appena accostò il mio viso ancor più vicino al suo, affogai dentro due iridi glaciali, in cerca di qualcosa che non riuscii a trovare.
Shiori a volte mi aveva giocosamente dato della strega per il mio sesto senso sviluppato e la mia capacità di lettura degli occhi e dell'espressione della gente forse fin troppo elevata... ma quella volta, quella volta non riuscii a vedere nulla, se non il riflesso delle mie preoccupazioni tornare all'istante di fronte all'incapacità di visualizzare al meglio chi avessi davanti.
Da quando mi ero trasferita a Busan non avevo mai visto una tale bellezza asiatica.
Le sue gemme grigie iniziarono ad esaminare spudoratamente il mio viso ed ogni dettaglio di esso, spostandosi sulla lunghezza dei miei capelli neri come un fiume di petrolio e l'aria oscura che quel locale prometteva. Scese poi lungo il mio corpo fino alla punta delle mie scarpe. Giurai di aver visto quegli occhi di un altro colore l'istante prima.
«Qual è il tuo nome?»
Quella persona lì davanti si stava interessando alla mia di persona senza dare alcuna spiegazione.
Tentennai a rivelare un nome terso come il mio difronte a tanta.. tenebra.
«Crystal. Mi chiamo Crystal.»
Controvoglia, professai il mio nome. Avrei potuto mentire inventandone un altro, ma dire falsità in quella situazione era sicuramente una delle cose più sconsiderate che una persona con una buona sanità mentale potesse fare. Non che io mi vantassi di averne molta, partendo da dove mi fossi seduta.
«Crystal?!»
Il mio nome fuori dalle sue labbra risuonò diversamente da come me lo ero immaginata.
Non appena raggiunse il suo scopo iniziale di far incontrare i nostri sguardi, permise all'aria di mettersi in mezzo tra la sua mano ed il mio volto, staccandosi da me e riportando la sua schiena alla posizione originaria.
«A cosa pensavano i tuoi genitori quando ti diedero questo nome?»
Fu una domanda che si precipitò violentemente dentro la mia testa, scrutando tra i miei ricordi alla ricerca di una risposta.

Il calendario segnava la data del 17 Dicembre di un annata troppo indietro per ricordarlo. Una bambina dalla tenera età si divertiva a giocare con i capelli della madre, che era seduta su un sofà di fronte al caminetto. Alcuni regali dalle varie forme e colori circondavano la parte inferiore di un albero di Natale. Con la bocca ancora sporca e piena della mia torta di compleanno, vidi il volto della donna che era mia madre essere richiamato da una donna più anziana, era la mia cara nonna.
«Ricordi come nevicava quel giorno?»
Fu questo ciò che la nonna chiese a mia madre. Era naturalmente impossibile per me ricordare cosa accadde il giorno in cui nacqui, ma mia madre mi raccontava spesso di quella storia e di come la neve quella mattina iniziò a cadere subito dopo che io misi il primo piedino fuori dal suo grembo. La mia pelle chiara rispecchiava il colore candido della neve che danzava fuori dalla finestra. Da questa mia particolarità mia madre decise di chiamarmi Crystal, "dalla purezza di un piccolo cristallo di neve" diceva.
«Per non parlare di quando qualche mese più tardi vide la neve per la prima volta. Smise di piangere all'istante!»
Mia nonna non si era persa un attimo di me.

«Dimmi un po', devo inserire il gettone per sentirmi onorato della tua voce?»
L'attenzione della mia mente venne riportata ad un tempo presente, dove c'era un ragazzo che iniziava a spazientirsi per le mie risposte non date nella giusta tempistica.
«Mi perdoni, oraboni.»
Non potevo dimenticarmi che garantire un buon servizio facesse parte del mio lavoro. Non mi restò altro che scusarmi, pregando silenziosamente che sorvolasse sulla mia distrazione per la seconda volta.
«Non c'è soluzione che io non riesca a trovare, figuriamoci di un modo per farsi perdonare!»
Pericolosamente si avvicinò allo stesso modo di prima alla mia figura, e poggiando una mano sulla spalliera della sedia in cui sembrava avessi messo le radici, iniziò a fissarmi con uno sguardo in cerca di una risposta dentro al mio. Ma rimasi statica ed impassibile alla sua affermazione, e nonostante le peggiori scene apparvero all'interno della mia mente, usai tutta la mia forza di controllo per mantenere la calma.
«Hyungnim, ciò che ha chiesto è arrivato!»
Uno dei ragazzi che avevo visto prima giocare al tavolo da biliardo si piombò all'interno della stanza, rivolgendosi all'uomo che non smetteva di distogliere la sua visuale dalla mia con un onorifico che mi fece raggelare il sangue.
Ed in quell'istante capii chi avessi di fronte.
«Adesso vai.»
Rivolgendosi a me, mi "invitò" ad uscire dalla stanza.
«Non vuole ordinare niente orab-?»
Prima di uscire avrei voluto assicurarmi che non volesse ordinare nulla, ma non riuscii a terminare la domanda per lo stupore. L'onorifico infatti mi morì in gola, realizzando solo in quel momento quale potesse essere il significato differente che aveva rispetto agli altri clienti.
«Già fatto.»
Il ghigno che gli si formò sul volto dopo quella frase mi fece insospettire, e non capendo a cosa si riferisse mi inchinai per salutare ed uscii da lì, ricordandomi finalmente di respirare.
Avevo appena avuto a che fare con un Oyabun coreano, che tradotto nella mia lingua madre significava: leader assoluto.

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