Mi chiamano tutti Nina

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Mi chiamano tutti Nina, ma il mio nome è molto più complicato.

Mio padre aveva sempre lavorato all'ambasciata americana, dacché me ne potessi ricordare, e aveva sempre amato follemente mia madre, dal momento in cui avevo iniziato a comprendere cosa volessero significare tutti quegli stupidi vezzeggiativi con cui riusciva a chiamarla. Aveva avuto il potere di farmi pensare che anche per me sarebbe stata la stessa cosa. Anch'io avrei incontrato qualcuno che mi avrebbe adorato a quel modo. Ma col tempo, avevo capito che certe fortune capitano solo a donne belle come mia madre. E quella era una colpa tremenda.

Mia madre, Kala, l'avevo invidiata da sempre: per il comportamento, per la posatezza, e per la bellezza innata che si portava con sé. Il giorno in cui si era affacciata nell'ufficio di mio padre, Andrea, aveva fatto su di lui il solito effetto che faceva su tutti gli uomini italiani, con l'unica differenza che lui aveva avuto su di lei l'effetto più forte che fosse mai riuscita a provare.

Non erano giovanissimi, e si sposarono dopo pochi anni dietro casa di mia madre, nell'unica piccola chiesa dell'isola dove risiedeva la nonna dalla pelle ambrata che non avevo fatto in tempo a conoscere.

Mia madre, cattolica nel mix di culture delle Hawaii, si sposò in abito bianco, a piedi nudi, e con un'enorme mazzo di fiori di ibisco rosa tra le mani. Mio padre non riuscì a guardare mai nell'obbiettivo della macchina fotografica. In qualsiasi foto di quel giorno, ma che strano, i suoi occhi ricercavano quelli cioccolato di Kala, la mia bellissima mamma, che a trentacinque anni si portava nella memoria pezzi di atollo e decideva di seguire mio padre oltre gli oceani.

Il mio nome ha una storia di migliaia di anni, anche se Kala ne aveva solo trentotto quando lo annunciò a Andrea.

<<Amore, sono incinta di due mesi>>, gli disse con un sorriso, mentre uscivano dal tempio di Abu Simbel, quaranta gradi all'ombra, dopo che quella pazza di mia madre aveva taciuto la sua gravidanza pur di partire per l'Egitto.

La guida aveva subito accorso mio padre, ritenuto vittima di un colpo di calore. Si era risvegliato nell'infermeria dell'hotel, con una flebo piantata nel braccio.

<<Oh, insomma, non vuoi sapere perché te l'ho detto proprio adesso?>>.

Andrea si lasciò cadere disteso sul lettino. Kala gli sorrise.

<<Ho trovato un nome per tua figlia, dentro Abu Simbel>>.

<<E chi ti dice che sarà una bambina?>>, domandò mio padre accarezzandole la pancia e baciandola, sconfitto.

<<Vedrai>>, rispose lei baciandolo a sua volta. <<Si chiama Nefertiti, "la bella è giunta">>.

Mi chiamo Nefertiti, "la bella è giunta", e porto questo nome da prima che nascessi, dal momento in cui mia madre Kala posò gli occhi su quelle pitture che la ritraevano così bella, regina d'Egitto migliaia di anni prima che io giungessi, amata e adorata dal proprio faraone che le concesse potere e prestigio nella sua corte.

Dagli occhi cioccolato di mia madre e quelli azzurri di mio padre ho ereditato un colore da tavolozza confusa, un verde intenso da sembrare unico. Ho il corpo di un'indigena, come mia madre, e una mente da italiana, come mio padre.

L'orologio del cruscotto mi diceva che erano già le tre del pomeriggio. Contavo di raggiungere Colfosco verso le cinque. Contavo di raggiungere la mia nuova vita in un po' più di tempo, come un periodo di disintossicazione dopo mesi da alcolista.

Mio padre l'aveva presa né bene, né male. Ma all'ennesima rivendicazione dei suoi sensi di colpa sul mio labile temperamento, ero riuscita a puntare i piedi, a chiudere gli occhi e dirgli che ormai avevo già deciso. Mi aveva sbattuto la telefonata in faccia, chiudendo la conversazione come meglio gli riusciva fare, e l'avevo lasciato sbollire. Il giorno seguente, probabilmente rincuorato dalla bella Kala, mi aveva richiamato dicendomi che effettivamente era da tanto che voleva ritornare a sciare proprio a Colfosco.

Quando io non sognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora