Gli poggiai delicatamente il palmo della mano sul petto

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Gli poggiai delicatamente il palmo della mano sul petto, me ne scostai, e con il viso basso mi alzai dal divano. Barcollai un istante nella direzione di Cristina, la sorpassai e andai a chiudermi in camera. Senza un lamento, una parola.

Neri passò la giornata seguente a bussare sulla porta, poi a picchiarci sopra, infine a chiamarmi con toni che cambiavano via via che il sole spariva di nuovo dietro le montagne, e io rimanevo immobile nel letto.

Non mangiai.

Lo sentii chiamarmi a voce bassa, urlare, imprecare, di nuovo sussurrare e poi lamentarsi, il mio nome sempre all'inizio di ogni frase che passava dal legno della porta.

Allora mi ripiegai su me stessa, come per un inverno ancora più freddo.

Aprile stava iniziando, passò la Pasqua e neanche me ne accorsi, la neve si diradò in punti sempre più grandi, per rimanere nella parte più profonda di me in cui nessuno era ancora riuscito a penetrare.

Neri non lo ammise, ma neanche lo negò. Fu sufficiente guardarlo in viso, una volta soltanto, dopo due giorni in cui fui di nuovo capace di piantargli uno sguardo nei suoi occhi neri, e quando distolse lo sguardo, ebbi l'ennesima conferma.

Gli voltai le spalle, gli voltai tutto di me, definitivamente.

Ormai dormiva a malapena in casa, probabilmente soggiornava da Cristina, e pregavo, le poche volte che lo sentivo rientrare, che non sentisse quanto mi costasse tenere la porta chiusa.

Io ero chiusa. Mi maledivo per i pochi spiragli che Neri era riuscito ad aprire, mi maledivo in continuazione per il semplice fatto che ci fosse ancora qualcosa da aprire, e che qualcuno ne avesse ancora le chiavi. Ero convinta di non averne lasciate in giro, e di non aver fatto copie.

Prima di arrivare a Colfosco, mi ero persino chiesta se ne fossero mai esistite, di chiavi, e se invece non fossi stata chiusa da sempre. Anche prima di Damiano e di tutto quello che avevo dovuto affrontare dopo, senza di lui.

Non c'era fibra di me che non mi dolesse.

Non si trattava di Neri e Cristina, non si trattava del loro aver fatto sesso, no, me ne rendevo conto, ancora una volta stavo male per me, e solo me. Non sopportavo ciò che mi ero ammessa, un istante prima di accorgermi che anche in quella situazione ero di troppo.

Ero cambiata, se così si poteva dire. Ero diversa, e tornare indietro non era più possibile.

Ne pensai mille, in quella giornata chiusa in camera, distesa sul letto a guardare il soffitto, finché il soffitto stesso passò dal bianco al nero cupo, e capii di essermi addormentata. Pensai che potevo scappare, preparare le valigie di nuovo, e non lasciare che Neri me le disfacesse, così come aveva disfatto la mia stabilità.

Oppure potevo rimanere.

In entrambi i casi, quando vagliavo queste due opzioni distinte, sopraggiungeva la voglia di piangere, accompagnata da un buon condimento di malinconia e paura, e mi accorgevo che non avevo possibilità.

Ormai dovevo affrontare la nuova me, guardare in faccia ciò che ero. In fin dei conti, non mi rimaneva che aspettare.

E aspettai. Aspettai due settimane piene, come sempre, svegliandomi, vivendo, lavorando, dormendo. Leggendo.

Anna Karenina la tenevo sotto braccio, a ogni pausa lavorativa mi appoggiavo al bancone, e Lilia mi portava un piatto colmo, che finivo svogliatamente, una tazza di tè e un abbraccio da nonna.

<<Coraggio>>, ripeteva, mentre sorrideva e si rimetteva a posto gli occhiali.

<<Certo>>, rispondevo, sapendo che era proprio ciò che mi mancava, sapendo che continuavo a invidiarla per l'amore che Paolo le dimostrava.

Quando io non sognoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora