Prologo

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«Tomlinson!»

Il rumore metallico e ormai piuttosto familiare di un bastone di ferro che picchiava contro le inferriate del mio letto a castello – seguito dal mio cognome urlato a gran voce – fu il mio risveglio di quella mattina. Non male, se paragonato a quella volta in cui mi avevano rovesciato addosso un intero secchio di acqua congelata per farlo.

Mi passai le dita tra la massa disordinata dei miei capelli e mi misi seduto, guardando verso il basso l'uomo alto e in divisa che mi stava scrutando da sotto le sue folte sopracciglia.

«Scendi e datti una sistemata. Subito.» mi disse, lanciandomi dei vestiti puliti dopo che mi ebbe esaminato velocemente la maglietta – che un tempo doveva essere stata bianca – macchiata di olio e grasso. «Forse oggi è il tuo giorno fortunato.»

Aspettai che uscisse del tutto e mi guardasse un'ultima volta, urlandomi "hai cinque minuti esatti di orologio!" prima di sospirare, afferrare i miei nuovi vestiti e scendere le piccole scale di metallo del letto a castello.

Bobby, l'uomo sulla cinquantina, panciuto e dal sonno decisamente pesante e rumoroso, si era a malapena svegliato e ora era girato su un fianco, pronto a ricominciare da dove aveva interrotto la propria dormita. Non era una brutta compagnia, una volta essersi abituati al suo russare imperterrito, ad un volume estremamente alto, la notte. Per il primo mese, avevo dormito sì e no due ore a notte a causa del rumore assordante che proveniva dal fondo della sua gola... ma adesso, credo che mi sembrerà strano oramai addormentarmi la notte con il silenzio più totale.

Mi diressi verso l'unico lavandino della stanza, sulla parete del fondo, e aprii il rubinetto cominciando a fare scorrere l'acqua, che – appena aperta – scorreva sempre di un colore arancione per i primi venti secondi. Ne approfittai per appoggiare le mani ai lati di esso e sporgermi in avanti, verso lo specchio malmesso e polveroso, guardando il mio riflesso allo specchio: gli occhi incavati e cerchiati di un viola marcato a causa delle occhiaie, dei capelli decisamente troppo lunghi e una barba talmente folta e trascurata da riuscire a scorgervi a malapena le labbra.

Mi accucciai sui talloni e tastai con le dita il retro della lastra di ceramica del lavandino, dove sapevo di aver nascosto una lametta piccola e rettangolare che avevo rubato ad una delle guardie un pomeriggio, nelle docce, dopo l'allenamento obbligatorio della settimana.

Una volta che i miei polpastrelli entrarono in contatto con la sottile lama fredda, la estrassi e mi rialzai in piedi per tornare davanti allo specchio, cominciando a tagliare il più possibile la barba in eccesso, consapevole che cinque minuti non mi sarebbero bastati, altrimenti, per fare tutto. Mi lavai faccia e denti, raccolsi i capelli con un elastico in un codino basso dietro la nuca e cominciai a vestirmi: mi avevano riservato una camicia a quadri e dei jeans, per l'occasione. Cavolo, doveva essere davvero il mio giorno fortunato!

Nel momento in cui l'uomo in divisa di poco prima tornò a prendermi, ero ormai pronto e stavo prendendo le poche cose che avevo con me. Lasciai un bigliettino di saluti sulla pancia enorme di Bobby e non appena alzai gli occhi sull'uomo che mi attendeva, lo vidi aspettarmi con delle manette di metallo sollevate per aria e un ghigno dipinto sulle labbra spesse.

Mi appoggiai la felpa su una spalla e allungai le braccia con i polsi uniti e girati verso il soffitto, fissandolo dritto negli occhi mentre attendevo che svolgesse il suo lavoro, come da prassi. Dopodiché, mi afferrò duramente per il braccio e mi spostò davanti a sé, fermandosi per chiudere a chiave l'inferriata della mia cella per poi spingermi verso il lunghissimo ed infinito corridoio che si estendeva davanti a noi.

Odiavo percorrerlo.

Era posto esattamente al centro delle celle di tutti i detenuti; la mia cella era la terzultima, per cui ogni volta mi toccava percorrerlo interamente, con urla, insulti, oggetti lanciati e addirittura alcuni sputi dagli altri detenuti, i quali si trovavano rispettivamente sia a destra che a sinistra del corridoio.

Era la prassi.

Grazie a Dio, erano state poche le volte che avevo dovuto percorrerlo durante tutto quell'anno; forse, il fatto di non avere nessuno che tenga a te, che ti venga a trovare, non avere qualcuno che senta la tua mancanza ha i suoi lati positivi, qua dentro.

Con la testa bassa e le guance premute contro i denti per placare il nervoso, cominciai a camminare tra gli insulti, le imprecazioni e le offese. Alcune mi facevano sorridere per quanto fossero assurde, altre un po' meno, perché alcuni – non avevo idea di come – conoscevano talmente tanto di me da sapere esattamente quali punti toccare per farmi innervosire. Alzai il viso solamente quando arrivai alla fine del corridoio, dove la guardia estrasse un altro mazzo di chiavi, cercando quella giusta che aprisse il cancello. Fu lì che posai lo sguardo sull'uomo pelato, con i baffi folti e scuri, che mi guardava con gli avambracci completamente tatuati che sporgevano dal proprio cancello.

Era l'unico in silenzio, a guardarmi fisso; uno stuzzicadenti sbeccato tra le labbra e una sigaretta dietro l'orecchio sinistro. Sostenni il suo sguardo per tutto il tempo, fino a quando, alla fine, l'uomo in divisa non indovinò la chiave giusta e aprì il cancello.

A quel punto, un sorriso comparve sulle labbra del detenuto e l'occhiolino che mi fece, unito ad un cenno del capo, mi ricordarono quanto fossero stati lunghi ed interminabili quei quattordici mesi di carcere.

***

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Hiraeth||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora