Capitolo 2

299 21 15
                                    

Song: 21 guns – Green Day

Tra le tante cose che mi erano mancate di più durante i quattordici mesi che avevo trascorso in carcere, vedere l'alba era senza dubbio tra le prime cinque della lista.

Tutti noi diamo per scontato parecchie cose, al giorno d'oggi; come, ad esempio, il semplice godersi un'alba o un tramonto, alzare gli occhi al cielo e guardare la luna piena, o sdraiarsi supini sul prato a contare le stelle di notte – anche se alcune dicerie dicono che porta sfortuna farlo.

Solamente nel momento in cui non siamo più liberi di farlo, quando ce ne ritroviamo privati, solo allora riusciamo a renderci conto di quanto effettivamente valgano, tutti questi piccoli e semplici aspetti della quotidianità.

Per quel motivo, quella mattina, alle sei e trenta in punto, mi ritrovavo con gli avambracci poggiati sulla ringhiera di metallo – per gran parte arrugginita dall'acqua e dal tempo – con il naso rivolto verso l'orizzonte a godermi il cielo roseo e l'aria pungente del mattino.

L'uragano aveva fatto il suo corso durante la notte, senza fare nessun danno gravoso, fortunatamente. Le strade erano ancora completamente bagnate e le temperature erano scese di parecchi gradi, ma il cielo sgombro e azzurro, assieme al sole che stava per spuntare sulla Florida, preannunciavano una meravigliosa giornata.

Rientrai in stanza dirigendomi nella piccola e spoglia cucina adiacente alla camera da letto. Non avendo l'hotel un ristorante e quindi un servizio di colazione da offrire ai clienti, ogni camera disponeva di un piccolo cucinino che conteneva l'essenziale: due fornellini, un lavandino, un mini-frigorifero e un tavolo quadrato con solo due sedie.

Per la cifra che avevo pagato, era anche troppo. Il piano cottura era macchiato e graffiato, il tavolo dondolava su un lato, ma in quel momento non avrei potuto desiderare di più di quello che già avevo.

Intinsi una bustina di tè verde nell'acqua in ebollizione e mi appoggiai al ripiano della cucina, guardandomi attorno: tutto quel silenzio non faceva altro che farmi sentire più solo di quanto effettivamente non fossi già.

Almeno in carcere c'era sempre baccano, e tutto quel rumore mi aiutava a distrarmi dai miei pensieri e da me stesso. Con tutto quel silenzio che regnava in quella stanza, invece, l'unico rumore che sentivo era quello degli ingranaggi del mio cervello difettoso che continuavano a girare e girare, in cerca di una soluzione a tutti i miei problemi.

Per quello, finii in fretta la mia colazione, afferrai il mio giacchetto di pelle e corsi giù dalle scale malridotte dell'hotel, fiondandomi nella biblioteca più vicina. Non appena varcai la soglia, centinaia e centinaia di studenti universitari erano chini sui propri libri: c'era chi aveva le cuffiette nelle orecchie e tamburellava la matita sul quaderno a tempo con la musica, chi – in compagnia dell'amico – faceva tutto fuorché studiare e chi guardava male questi ultimi elementi, incenerendoli con lo sguardo per quanto disturbo stessero recando a chi veramente aveva intenzione di passare gli esami.

Per un attimo, per una sola frazione di secondo, pensai che avrei facilmente potuto confondermi con uno di loro; che avrei potuto essere anch'io un semplice ragazzo come loro, iscritto ad una di quelle facoltà in cui poi si finisce a fare un lavoro completamente fuori dall'ambito di studi in cui ci si è laureati, perché è questo che la maggior parte di quei ragazzi finiranno per fare.

Perché la vita è diversa da come la si immagina e il futuro è diverso da come lo si sogna.

Nel momento in cui qualcuno estrasse dalla tasca un i-Phone, qualcun altro accese un Mac posizionandolo sulla propria scrivania e un ragazzo, andandosene, prese le chiavi della sua Audi, mi resi conto che – effettivamente – non avrei mai potuto far parte di quel mondo, e mi diressi verso la fila di PC vecchi e – al giorno d'oggi – inutilizzati e dimenticati da tutti che si estendeva nella parete sud della stanza.

Hiraeth||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora