Capitolo 3

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«E che cosa ha fatto, per tutti questi anni, fino ad ora, Signor Tomlinson?»

Alzai gli occhi sull'orologio a muro alle spalle dell'uomo in giacca e cravatta seduto davanti a me, che continuava a girarsi e rigirarsi una penna stilografica tra le dita, analizzandomi attentamente.

Dieci minuti. Dovevo riuscire a sostenere un colloquio per almeno dieci minuti. Finora, il mio massimo era stato cinque e mezzo. In sei giorni ero riuscito a strappare due colloqui: uno come fattorino della pizza e uno come portinaio all'ingresso dell'università.

Nel primo avevano paura che potessi intascarmi i soldi delle pizze, nel secondo che cominciassi a importunare le ragazze; il tutto solamente perché la bellissima tecnologia del ventunesimo secolo permetteva di sapere tutto quello che c'era di importante da sapere su una persona in solamente pochissimi secondi.

Comunque, ne erano passati sette, esattamente, di minuti per quel colloquio. Un vero record.

Riposizionai gli occhi in quelli dell'uomo che ancora aspettava pazientemente una mia risposta, e mi schiarii la gola mentre mi sistemavo il maglioncino verde scuro che avevo appositamente comprato per l'occasione.

«Vede, non ho avuto una vita facile in passato.» cominciai, non per mettere le mani avanti o giustificarmi, semplicemente perché era la verità. «Fin da bambino, sono...» mi interruppi nel momento in cui vidi l'uomo annuire, afferrare il tappo e richiudere la penna per poi posizionarla ordinatamente sul tavolo.

Incrociò le mani sul tavolo e mi guardò attentamente.

«So chi è lei.» mi disse, allungando una mano ad afferrare un plico di fogli alla sua destra. «Deve sapere che mi documento sempre, prima di assumere qualcuno nella mia azienda.» rigirò i fogli nella mia direzione così che potessi vedere la foto segnaletica che mi avevano scattato alla mia entrata in prigione.

Dio, sembravo ancora peggio di quanto non fossi già, in quell'immagine. I miei capelli erano sfatti e aggrovigliati, gli occhi gonfi e rossi e il sorrisetto che portavo, unito alla faccia da schiaffi che mostravo, faceva innervosire me, figurarsi gli altri. E la cosa bella, era che quella sera di quattordici mesi fa ero talmente fatto e ubriaco da non ricordare nemmeno che me l'avessero scattata, quella foto.

«Non sono più quella persona.» fu l'unica cosa che gli dissi, alzando gli occhi nei suoi.

«Già.» annuì l'uomo, riponendo i fogli nell'apposita cartelletta. «Vede, vorrei tanto crederle. E probabilmente è davvero così. Penso che il carcere sia in grado di ripulire e cambiare le persone, lo credo fermamente. Però, vede...» fece una pausa e si appoggiò allo schienale della sua sedia girevole, riprendendo la penna stilografica per rigirarsela tra le mani. «Assumerla, anche solo in prova o per un tempo determinato, rovinerebbe l'immagine della mia azienda. Insomma, non per vantarmi ma siamo molto conosciuti qui a Miami... cosa ne direbbero i giornali?»

Oh, quello era il problema.

I ricchi sì che hanno a che fare con i grandi problemi della vita...

«Potrebbe sempre dire loro di tacere e farsi gli affari loro. Gesù, la posizione lavorativa per cui mi sono candidato è pulirle il cesso del suo magnifico ufficio, che immagine potrei mai rovinarle?!» dissi aspramente, consapevole che, in ogni caso, il destino di quel colloquio era già stato scritto prima che varcassi la soglia di quello studio. «Comunque, sarebbe una bella battaglia da combattere, quella contro i pregiudizi. Non crede? Ma forse, lei non ha abbastanza palle per farlo.» mi alzai in piedi e avvicinai la mia sedia alla scrivania per rimetterla al proprio posto. «Non si scomodi, conosco dov'è l'uscita. Sono in grado di arrivarci da solo.»

Oserei quasi dire che il motivo per il quale in quel momento avevo appena varcato la soglia del Black Hole, fosse proprio per l'esito del colloquio di quel pomeriggio. E, in parte, era la verità.

Hiraeth||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora