Capitolo 4

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Il mio telefono vibrava ininterrottamente da un'ora a questa parte. Aveva cominciato nel pieno pomeriggio; ricevevo una chiamata ogni venticinque minuti, all'incirca.

Adesso, ero seduto al tavolo del cucinino e lo fissavo con insistenza, senza mai rispondere: la scritta "sconosciuto" lampeggiava esattamente sette volte prima che la chiamata si interrompesse. Poi, c'era una pausa di circa venti secondi e dopodiché la scritta ricominciava a lampeggiare e il telefono a vibrare.

Quest'ultimo aveva tremato così tante volte che adesso si trovava a bordo del tavolo, e lo squillo successivo lo fece cadere per terra, con un rumore sordo contro la moquette della stanza.

Chiusi gli occhi e appoggiai i gomiti al tavolo, infilandomi le dita tra i capelli mentre cercavo un modo per porre fine a tutto questo. Sapevo che avrebbero continuato a chiamarmi fino a quando non avrei risposto, arrivando a sfinirmi mentalmente.

Eppure, prima di rispondere dovevo trovare un piano.

Ma d'altra parte, sapevo benissimo di non avere scelta. Dal momento in cui quei soldi erano stati versati sul mio conto, ero stato comprato. Non potevo più tirarmi indietro, oramai.

Il telefono a terra smise di vibrare in quel momento, e contai esattamente fino a diciannove prima che ricominciasse. Mi alzai di scatto, ribaltando la sedia per terra, lo afferrai e lo spensi violentemente, appoggiandolo poi sulla mensola lì affianco prima di prendere il giubbetto di pelle dall'attaccapanni ed uscire.

Non appena arrivai sulla soglia del portone mi fermai ad osservare la situazione: pioveva a dirotto da questa mattina e le strade erano oramai allagate.

Pensai a Francis, al fatto che nemmeno lei avesse un'auto e che, anche quel giorno, fosse uscita sotto le intemperie in bicicletta. Scossi la testa con un sorriso amaro e afferrai i lembi del cappuccio della mia felpa per tirarmelo sulla testa; avrei almeno dovuto comprarmi un ombrello, per la prossima volta.

Mi infilai le mani in tasca e cominciai a camminare lungo il marciapiede, cercando di rimanere il più possibile vicino al muro degli edifici con la speranza che i loro tetti mi riparassero dalla pioggia per la maggior parte della strada.

Era qualche giorno che non andavo al Black Hole, anche se solamente due giorni prima avevo incontrato Francis per strada. Era appena uscita da un piccolo negozio di alimentari, verso le sette di sera, ed io mi ritrovavo seduto sulla panchina dall'altra parte della strada, esattamente di fronte ad esso.

Indossava un paio di jeans neri aderenti, sopra una camicetta chiara e a coprirla un giacchettino di jeans. In testa portava sempre un cappello nero con visiera e tutti i suoi capelli erano nascosti sotto di esso, esattamente come quella volta che l'avevo beccata al telefono pubblico.

I suoi occhi scuri si erano subito imbattuti nei miei esattamente come i miei nei suoi; aveva rallentato il passo e pian piano le sue labbra si erano increspate verso l'alto in un accenno di sorriso. Io mi ritrovai a fare lo stesso di conseguenza, e per un po' rimanemmo solamente lì fermi a guardarci dagli estremi opposti della strada mentre macchine, pullman e camion ci oscuravano l'un l'altra di tanto in tanto.

Poi, alzai piano la mano e mossi lentamente le dita per salutarla.

Lei non ricambiò il saluto ma il suo sorriso si fece più ampio, fino a scoprire i denti, e – sistemandosi meglio lo zaino su una spalla – si infilò gli occhiali da sole e si incamminò per la sua strada, scuotendo lentamente la testa ma senza mai perdere il sorriso fino a quando non girò l'angolo e scomparve dalla mia vista.

Quella sera più che mai avevo voglia di scambiare due chiacchiere con lei. Oppure, la vodka liscia ancora intera nel mio frigo non avrebbe potuto farmi che ulteriori danni.

Hiraeth||Louis TomlinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora