34. Addio

9 1 0
                                    


«Non riesci quasi a crederci vero?» 

Il volto di Grey si deformò in un ghigno di soddisfazione vedendo Elettra seduta sulla scrivania della sua stanza. Richiuse la porta alle proprie spalle facendo scorrere il suo sguardo dalle sue gambe accavallate, fasciate da pantaloni aderenti e stivali di pelle scura, fino al busto protetto dall'armatura e finalmente al suo viso. Ignorò l'espressione glaciale che lei aveva addosso e, riposto il mantello con cura sul piano di legno, si avvicinò all'unica finestra che dava luce a quell'ambiente. 

«Non avevo alcun dubbio sul fatto che ce l'avresti fatta. Complimenti per aver dato il via al Glorioso Inverno della nuova Esghildar. Un peccato che il tuo nome non venga scritto negli annali insieme a quello del crudele Rolan Thormin» aggiunse, schernendola con cautela. Si appoggiò lievemente al davanzale guardandola. 

Al perdurare del suo silenzio decretò di non avere voglia di aspettare ed avanzò deciso fino ad essere davanti a lei. Le afferrò la vita con forza costringendola a scendere e le passò le dita tra i capelli scoprendo un lembo della sua pelle chiara per posarci un bacio. Socchiuse gli occhi, vinto dal suo profumo familiare. Nonostante la freddezza dei suoi gesti era stato teso fin dall'attimo in cui era uscita dalla stanza abbandonando il loro ultimo incontro.

«Mi auguro che a questo punto tu abbia capito come stanno le cose qui» mormorò al suo orecchio. Abbassò le mani accarezzando la pelle resistente delle sue vesti per sentire sotto di essa le sue forme delicate. La schiena ritta, la vita stretta... risalì percorrendole il corpetto, tenendo per sé il sorriso di sollievo nato dall'averla di nuovo al suo fianco. Lasciò un'umida scia di baci lungo il profilo del suo mento arrivando ai suoi fianchi e sciolse con mano esperta la chiusura della cintura. Tirò la stoffa dei pantaloni verso il basso, pronto a prenderla e farla sua di nuovo. 

Lei rimase per un attimo immobile mentre le sue labbra si appoggiavano sulle proprie, ma come dopo un silenzioso conto alla rovescia, digrignò i denti ed esplose in uno sonoro e scocciato sospiro: gli afferrò un braccio, torcendolo all'indietro fino a far sussultare il giovane ed appoggiò rapida Alice sul suo collo. 

«Tu non lo hai capito» La presa era anomala: troppo veloce, troppo forte per una donna, troppo scoordinata per il proverbiale perfezionismo di Elettra. Gli aveva lasciato la sinistra libera, ma il ghiaccio della lama premuto sulla pelle, dissuase Grey dal proposito di compiere qualsiasi movimento. 

«Non sono il tuo burattino», soffiò ad un palmo dal suo viso. «Non sono la tua bambola e ringrazia gli dei che di deva la vita altrimenti Alice non sarebbe stata così clemente» Il sibilo della sua voce incattivita lo sorprese, così come l'ennesimo strattone in cui sentì i legamenti della spalla tendersi in modo estremo. 

«Vivo molto più serenamente senza qualcuno che mi dica cosa posso o non posso fare; senza che tu giochi con me e quello schifo che porto dentro. Vivo molto più serenamente da sola» Elettra inclinò la testa e si sporse su di lui per vedere come la lama piegasse la pelle candida del ragazzo. Applicò una leggera pressione stringendo le labbra mentre una goccia di sangue scivolava lenta verso il basso.

Ammazzalo. 

«Smettila di preoccuparti per me» Allontanò l'arma e sciolse la presa prima di lasciarsi sopraffare dell'Ombra, girandolo in modo da vedere il suo viso. Prese con la destra il bavero della sua maglia e lo avvicinò di scatto. La stazza non significava nulla: era abbastanza forte da trascinarlo, era abbastanza forte da ucciderlo. 

«Non ho bisogno di nessuno. Non ho bisogno di te» proferì secca, guardandolo dritto negli occhi per l'ultima volta. Lo spinse di lato e gli diede le spalle, riponendo il pugnale al suo posto sulla cintura. «Non voglio più vederti» 

Uscì sbattendo la porta, lasciando per sempre quella città.


* * *


Grey si riscosse lentamente dall'intorpidimento che l'aveva preso ed abbassò finalmente lo sguardo dall'uscio. Ignorò il bruciore alla gola e strinse le dita sulla spalla dolorante. Sulla pelle del suo braccio destro spiccava acceso di un cupo rosso scuro il segno dovuto alla morsa in cui era stato intrappolato. Scottava, ma nulla era equiparabile alla sensazione che gli aveva attanagliato le viscere.

La sua mente si era tramutata in un arido deserto percosso dal vento: nulla rimaneva immune ad esso se non l'immagine della sua schiena ed il sibilo della sua voce, pesanti come massi tra la sabbia. 

L'assassino accennò una roca risata nascondendo il viso con una mano: sarebbe tornata. Lei non poteva fare a meno di lui. Lei non poteva lasciarlo. 

Facendo qualche passo si sporse verso la parete di destra, scorgendo uno strano luccichio provenire da un sacco leggermente dischiuso ed appoggiato al pavimento. Lasciando pendere lungo il fianco il braccio che gli era stato quasi slogato, immerse la mano sinistra tra la stoffa estraendo una manciata di monete di platino e facendole ricadere una alla volta al suo interno. 

Settanta. Non aveva bisogno di contarle per conoscerne il numero. 

Nel ripetere il gesto le dita incontrarono la consistenza leggera della carta e ne afferrarono un piccolo frammento, scritto con tratto sicuro e rapido. Non proferì parola, non rispose al dolore del suo corpo né a quella parte di sé che chiedeva vendetta immediata per l'umiliazione appena ricevuta e neppure alla voce razionale che gli suggeriva che qualcosa di peggiore di una ragazza arrabbiata era stato in quella stanza. 

Con una strana semplicità il sorriso malandrino che aveva sempre avuto in faccia si spense: quelle parole sottili sembravano peggio di quelle che le sue orecchie avevano udito e l'aria già cancellato.

Ora non ho nulla in sospeso con te.

Decretavano la fine.

Ombre di AmbraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora