Capitolo Uno: Nebbia

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3 anni dopo.

Il taxi si fermò vicino al marciapiede, una massa uniforme di newyorkesi si muoveva rapida su di esso. La bellezza di questa città si trova proprio nel fatto che nessuno sembra avere una meta precisa. Tyler aprì la portiera e mi invitò a scendere. In quel giorno portava una cravatta verde abbinata al suo tipico completo della domenica grigio topo, notai che le suole delle scarpe lo facevano sembrare più alto del solito. Io indossavo una canotta giallo paglierino con degli shorts color pesca A New York il sole aveva già iniziato a cuocere le sue vittime ed io sentivo il calore sollevarsi dalla strada ed investirmi in pieno.
<<Allora, ci siamo>>, disse balbettando.
Posò le valigie vicino ai miei piedi. Avevo preparato solamente due bagagli, non volevo ricordi fisici da portare con me. Sono quel tipo di ragazza che permette ai ricordi di insinuarsi nel profondo, di scavare fin dentro le ossa.
Guardai le rughe di Tyler, solo il quel momento mi accorsi di quanto fosse vecchio.
<<Ti scriverò, promesso>>, lo rassicurai.
<<Certo, certo. Fammi sapere come sta tua madre>>, mi rispose.
Era un modo carino per dire: «Di te non mi importa niente, sia chiaro! Fammi solo sapere come sta quella pazza di tua madre». Frugò nelle tasche della giacca e tirò fuori una busta bianca.
<<Qui dentro c'è tutto: il consenso del giudice, l'indirizzo di casa, l'indirizzo dell'ospedale ed il biglietto del treno>>, disse porgendomela.
<<Ok, credo sia giunta l'ora di dirci addio. Grazie per tutto quello che hai fatto per me, Tyler. Sei stato un ottimo padre>>, risposi dolcemente. Mi strinse in un abbraccio caldo.
In fondo mi sarebbe mancato, dopo tutto era stato pur sempre il mio tutore per 3 anni.
Con un gesto rapido presi le valigie e mi diressi verso la stazione.
Non avevo voglia di voltarmi, sarebbe stato troppo drammatico.
Non sapevo a che ora sarebbe partito il mio treno e, sinceramente, non sapevo nemmeno dove ero diretta di preciso, perciò aprii la busta bianca con uno strappo deciso e tirai fuori le varie carte.
Scrutai rapidamente tra le ricevute di pagamento e gli indirizzi concordati con il giudice finché non lo trovai: eccolo lì, il biglietto del treno! Cercai subito il nome della mia destinazione tra i vari caratteri cubici e neri.
<<Landlake?>>, esclamai ad alta voce. Non avevo mai sentito nominare questa città ma dalle poche informazioni che mi aveva dato mia madre sapevo che si trovava al centro di un lago, perciò avrei dovuto prendere un traghetto.
Dietro al biglietto color tortora trovai un post-it, notai subito la calligrafia bassa e schiacciata di mia madre. "Zia July", recitava il biglietto giallo.
Cominciai dunque ad incamminarmi sulla passerella di quel lungo patibolo che i più chiamano "destino".
Ad attendermi al binario 9 c'era il treno che mi avrebbe portato in questa città tanto sconosciuta quanto noiosa.
Fino ad allora avevo sempre vissuto in città molto movimentate e piene di vita, non avevo voglia di rintanarmi in una città turistica per anziani affetti da cervicale!
Immersa in tutti quei pensieri, non mi accorsi nemmeno di essere giunta sulla mia carrozza.
L'intero vagone era vuoto, perciò trovai posto facilmente.
Posai le valigie nel vano portabagagli posto sopra la mia testa e mi lanciai cadere pesantemente sulla poltrona vicino al finestrino. Tutto era arredato tutto in maniera molto semplice: sedili blu oltremare, moquette verde prato e pareti marroni. L'odore stantio di tappezzeria logora mista a caffè incominciò a farsi sentire. Avevo sonno. Avevo passato la notte in bianco fantasticando su dove sarei andata e chi avrei conosciuto, ora invece mi sembrava solamente tutto molto stressante. Un fischio acuto invase l'atmosfera intorno a me e, con un fare lento, l'intera locomotiva si mise in movimento. Durante il viaggio notai praterie e foreste svanire in un solo secondo davanti ai miei occhi e cominciai a scorgere nel cielo nubi dense e cariche di pioggia, come se l'estate non fosse mai passata da quelle parti. Sembrava che dell'ovatta grigia avvolgesse quel paesaggio scuro e pieno di magia.
Iniziai a sentire i morsi della fame ma non avevo modo di placarli perché nessun venditore di snack o di schifezze da viaggio si era deciso a passare. Mi portai una mano sullo stomaco come per calmarlo, poi mi toccai il cuore per sentire se stesse ancora battendo.
Quanto dolore possiamo sopportare? Secondo me c'è un limite.
Una volta sorpassata la soglia, come ci si sente?
Magari non si sente più nulla, perché si muore dentro senza accorgersene.
Allora il mondo forse è un posto pieno di morti viventi ricolmi di dolore misto a rimpianto.
Un po' come me, un po' come la mamma.
La mamma.
Mi ero incatenata a una promessa più grande di me. Seguire il proprio cuore è spesso la scelta più sbagliata al mondo.
Se Dio ci ha regalato un cervello un motivo ci sarà!
Circa tre anni fa mia madre cercò di suicidarsi senza un apparente motivo; magari era solamente un grido per farsi notare, per dire alle persone che la circondavano: «Sto affogando!»
Invece per una giuria vestita di camici bianchi inamidati, forte di una laurea appesa vicino allo specchio nella propria camera da letto, mia madre era da considerarsi pazza.
Così, con consenso unanime ed immediato, decisero di rinchiuderla in un ospedale psichiatrico alle porte di Harlem. Ogni giorno, dopo l'uscita da scuola, prendevo il treno che mi portava lì giusto in tempo per l'orario di visite pomeridiano. Molte persone mi fissavano cercando di capire cosa ci facesse una bambina con dei riccioli biondi e la pelle così delicata in un posto come quello. Io mi limitavo a guardare dritto, per non incrociare i loro sguardi.
Gli incontri con mia madre nascevano nel più completo silenzio per poi sfociare in un caloroso abbraccio intriso di rabbia e amarezza. Passavo molto tempo con mia madre, anche se lei continuava a ripetermi che dovevo trovarmi delle amiche ed cominciare a pianificarmi un futuro diverso. Non riuscivo a fare amicizia; oltre ad essere una persona particolare di mio, mi portavo sempre dietro il dolore per le mie vicende famigliari. Vedevo le mie compagne di classe sfoggiare gli abiti confezionati con tanto amore dalle loro mamme, volteggiavano allegramente per far notare bene l'orlo dei propri vestiti.
I soldi del lavoro di Taylor potevano comprarmi solo degli abiti griffati.
Il problema è che l'assenza di una persona importante nella tua vita non si colma con il primo che passa. Bisogna trovare la persona giusta, bisogna lottare. Una lettera giallastra decretò la rottura di quest'illusorio equilibrio. Diceva che mia madre doveva essere trasferita in un altro Stato per mancanza di strutture mediche adeguate.
Non avrei mai lasciato mia madre da sola ma non avevo abbastanza soldi per permettermi un viaggio al giorno o alla settimana. Il giorno dopo corsi da mia madre per farle leggere la lettera. Le dissi che non potevo lasciarla sola e che piuttosto avrei provato a suicidarmi, così magari ci saremmo ritrovate in stanza insieme.
Poi, una mattina di Giugno, quando la scuola era finita da un pezzo ed io non facevo altro che pensare riluttante al trasferimento di mia madre, andai a trovarla come al solito e lei, illuminata dal sole che filtrava timidamente dalla piccola finestra, improvvisamente mi disse: «Aria, ti ho mai raccontato di tua zia July?». La sua voce era fine ed aggraziata e pensai che mi mancava sentire il mio nome pronunciato dalle sue labbra.
Poi continuò: «Vive in un paesino assurdo al centro di un enorme lago nero che si trova a soli venti minuti dal mio futuro ospedale. Ieri sera mi sono ricordata di lei e dei suoi stupendi capelli. È la sorella di tuo padre, siamo rimaste molto in contatto dopo la sua morte. L'ho chiamata e, dopo averle spiegato il tutto, mi ha risposto che non vede l'ora che tu ti trasferisca da lei. È davvero una persona gentile».
Disse queste parole con un sorriso stampato in faccia. Mi aveva regalato una nuova speranza.
<<DESTINAZIONE RAGGIUNTA: LANDLAKE. GRAZIE PER AVER VIAGGIATO CON NOI>>, gracchiò la voce metallica proveniente dai microfoni ai lati del vagone, sfondando così i miei pensieri e riportandomi al presente.
Notai subito le gocce lucide rigare il finestrino. Mi alzai e presi i bagagli poggiati sopra di me. Non riuscivo a capire quanto tempo ci avesse impiegato il treno per arrivare qui, mi ero cullata troppo profondamente in pensieri nostalgici.
E soprattutto in quale stato mi trovavo? Maine? Rhode Island?
A passi decisi scesi dal vagone trascinandomi dietro le valigie. Il rumore della suola delle mie scarpe risuonava ritmicamente nel silenzio mistico di quel momento. Un cielo scuro faceva da sfondo alla fermata del treno, la nebbia si era progressivamente impossessata di quella zona, banchi di nuvole si muovevano sopra la mia testa e c'era una serie di panchine di legno coperte da un cartellone enorme con su scritto "LandLake". Il freddo cominciava ad arrampicarsi sulle mie cosce nude, posai dunque le mie cose a terra e mi strinsi forte le braccia attorno. Una folata di vento gelido pervase la banchina.
Era tutto così spettrale.
Girai la testa per cercare qualcuno e con estrema sorpresa notai che il treno non c'era più. Il mio cuore cominciò a pompare sangue caldo attraverso tutto il mio corpo. Ero sola, sono sempre stata sola. La solitudine, dopo molto tempo diventa la tua migliore amica, e da quel momento in poi, ti farà rifiutare molte persone solamente per stare con lei.
<<Aria, sei tu?>> disse una voce femminile alle mie spalle. Mi girai di scatto per vedere chi fosse.
Zia July portava un lungo cappotto rosso, ai piedi aveva delle scarpe invernali di pelle e in testa un capello di lana. Non sapevo con esattezza se fosse davvero lei. Mi porse la sua mano coperta da un guanto nero.
<<Mio Dio, mi ero scordata di avvisarti che qui fa molto freddo! Tranquilla cara, dieci minuti e saremo davanti ad un bel camino caldo>>, la sua voce era aggraziata e delicata e , nel complesso, sembrava una donna di altri tempi.
Mi tirò a sé e si incamminò verso l'uscita. Non riuscivo a vederla in faccia per colpa della fitta nebbia. Perché correva?
<<Attenta, qui ci sono dei piccoli scalini>>, mormorò mentre la vedevo camminare nel vuoto.
Guardai in basso per tutto il tempo, scorgevo le mie gambe muoversi ad un ritmo indefinito.
Ormai non mi aspettavo più nulla dalle persone, potevo benissimo star tenendo la mano di una celebre assassina della zona che portava le sue vittime in qualche buia laguna per poi le ucciderle e farle a pezzi. Funziona così: dopo che la delusione ti avvolge per parecchio tempo, cominci ad aspettarti sempre il peggio dalle persone.
Il terreno cominciò a diventare morbido,verde e bagnato, inoltre c'erano dei piccoli ramoscelli sparsi dappertutto. L'odore boscoso si era insinuato dentro le mie narici.
<<Eccoci arrivati al traghetto, ma signorina>>, disse guardando verso di me. <<Cominciamo innanzitutto a correggere questa gobba e smettila di guardarti i piedi! Guarda piuttosto il panorama di LandLake>>, continuò.
Non sembrava che mi stesse facendo un rimprovero, i suoi erano semplicemente dei consigli.
Alzai lo sguardo e notai subito quel panorama che si apriva davanti ai miei occhi.
La nebbia c'era ancora, ma adesso era meno fitta
Di fronte a me si estendeva un enorme lago nero, fiancheggiato da enormi montagne ricoperte di foreste ed al cui centro si stagliava un grande isolotto da dove sorgeva la città. Riuscivo a vedere i larghi edifici anche da qui. Sembrava un'isola nel mare ma era completamente diversa; il lago si estendeva ancora per chilometri e la città anche, chissà quanto era grande. <<Mio dio!>> esclamai. Il vento gelido soffiava sopra l'acqua scura accarezzandola a poco a poco.
<<Sapevo che ti sarebbe piaciuto, fa un certo effetto a tutti>>, disse compiaciuta Zia July.
Guardai verso la sua direzione e notai subito il suo volto. Dalla voce e dal portamento sembrava una signora sulla sessantina, ma avrei potuto spacciarla benissimo per mia sorella. Riuscivo a riconoscere i miei tratti anatomici in lei: le gote costantemente arrossate, la pelle olivastra, le spalle piccole e i suoi lunghi capelli biondi.
Aveva degli orecchini verdi che le facevano risaltare gli enormi occhi da cerbiatto. Era perfetta.
<<Sì, sembra una città molto particolare. Chissà se ci farò mai l'abitudine>>, risposi tranquilla.
<<Tesoro mio, dopo aver vissuto per 10 anni a Chicago, pensavo che non sarei riuscita ad abituarmi ad una città così...isolata. Col tempo ci si fa l'abitudine, ci si abitua a tutto tranne che al dolore>>, disse con franchezza. <<Abbiamo lo stesso taglio di capelli lo sai?>>, domandò dopo aver notato la somiglianza.
<<Qualcosa del genere, sì>>, risposi ridendo. Era simpatica.
<<Insomma, io sono una brava nuotatrice>>, continuai. <<Ma come ci arriviamo dall'altra parte?>>, chiesi estremamente seria. Alzò il braccio destro ed indicò qualcosa alle mie spalle, girai il busto verso quella direzione.
Una barca marrone scuro e di enorme grandezza poggiava sopra l'acqua del lago. Non l'avevo ancora notata eppure le dimensioni erano giganti. Doveva essere sicuramente il traghetto. Mi fece segno di seguirla e, a passi rapidi, si avviò verso la passerella di legno, di fianco a quella "cosa" che sembrava tutto fuorché un'imbarcazione. Avevo ancora le braccia conserte per ripararmi dal freddo ed il rumore dei miei scarponi tuonava sgraziato sul piccolo pontile.
Mia madre mi portava spesso al mare, me lo ricordo ancora. Si metteva sempre distesa sulla sabbia color rame e rimaneva lì a prendere il sole, mentre io passavo tutto il giorno a costruire castelli di sabbia. Ho costruito castelli pieni di marciume per molto tempo, mattone dopo mattone scandivo la mia vita in maniera trasandata e lasciva, senza nemmeno accorgermene.
<<Allora, Aria,com'è andato il viaggio?>>, domandò zia July distogliendomi dai miei pensieri.
<< E' stato strano>>, risposi.
<<Come mai?>>.
<<Non lo so, pensavo di metterci molto più tempo per arrivare qui, ma poi mi sono accorta del contrario e questo mi ha spinto a giudicarlo strano>>, dichiarai.
Rise, sembrava mia madre. <<Hai un concetto un po' assurdo dello strano, non trovi?>>, esclamò.
Eravamo sul pontile di legno, ci eravamo sedute sulle panchine di fronte alla veranda per ammirare meglio il lago. Era enorme. Zia July aveva chiesto una coperta al comandante, il quale ce ne porse gentilmente una dopo essere sceso nella stiva per cercarla. Puzzava di pesce, ma almeno mi teneva al caldo. Rimanemmo in silenzio fino allo sbarco e poi rapidamente scendemmo a terra. L'intera costa era piena di case color panna che avevano tutte uno steccato scuro a delimitare i loro confini. Vedevo la sabbia chiara fare da base a questo paesaggio. Davanti a noi c'era una piccola via scavata nella terra e riempita di mattoncini verdi.
<<Vedi Aria, questo sentiero porta direttamente alla città>>, disse indicandolo. Avevo ancora la coperta sopra le spalle.
<<Queste case>>, disse quando ci incamminammo per LandLake, <<sono tutte di proprietà di un singolo uomo, fa parte di una delle famiglie più ricche>>, continuò
Dopo qualche passo mi trovai finalmente la città di LandLake davanti. Era una città normale, sembrava una di quelle colonie americane che si formano vicino alle autostrade principali. Enormi edifici dividevano questo ammasso urbano e riuscivo persino a scorgere qualche insegna illuminata. Veicoli grigi giravano in lungo e in largo le strade. Al centro si trovava un gigantesca cupola, doveva essere qualche centro importante. Oltre i palazzi si vedeva una lunga pianura composta da altre piccole casette. Per essere una città nata su un' isola al centro di un lago era davvero enorme.
<<Come fate ad avere la corrente qui?>>, domandai a zia July mentre eravamo in un taxi.
<<Ottima domanda, non ti sfugge davvero niente>>, rispose facendomi l'occhiolino. La macchina gialla sfrecciava per le varie vene interne della città, dopo circa due isolati, i palazzi scomparvero sotto i miei occhi per far largo alla periferia. <<Sotto il lago, abbiamo quattro enormi condotti ripartiti per ogni bene essenziale>>, continuò.
<<Wow, per essere una città al di fuori del mondo siete molto all'avanguardia>>, risposi con una nota di sarcasmo.
Il veicolo giallo si fermò davanti a una casa viola, era una classica dimora in stile americano, non aveva nulla di particolare. <<Tenga il resto>>, disse mia zia mentre porgeva le banconote al conducente.
Aprii la portiera e scesi, si respirava un'aria diversa, più pulita.
<<Una casa umile per una persona umile>>, se ne uscì July posando le mie valigie a terra.
<<Chi lo diceva questo?>>.
<<Tuo padre!>>.
Papà.
Ricordo ancora quando mi portava al parco vicino casa, mi spingeva sull'altalena e io gli urlavo: «forza papà, più forte!». Solo ora mi rendo conto che la velocità rimaneva la stessa di sempre, eppure, ogni volta che le sue enormi braccia mi spingevano, mi sembrava di volare. Era un uomo alto e distinto mio padre, si vestiva sempre come un importante uomo d'affari. Spesso gli facevo tirar fuori il completo nero elegante solamente per giocare un po'con me: facevamo finta che io fossi una ricca donna sofisticata in cerca di una casa per i suoi figli, mentre lui diventava l'uomo affascinante e premuroso che mi aiutava a trovarla.
Le mie risate erano più sincere quando stavo con lui.
<<In cima alle scale a destra. Ho cercato di arredare la tua camera in maniera decente, così, se vuoi, puoi portare qualche amica>>, disse zia July. In quel momento eravamo nella stanza d'ingresso, i miei piedi poggiavano su un tappeto nero, salii immediatamente le scale e notai le varie foto appese al muro.
<<Scatti fotografie zia July?>>, mormorai sorpresa. Sentivo i suoi passi dietro di me.
<<Ti prego tesoro, non chiamarmi "zia", mi sa di vecchio. July è perfetto>>.
<<Ok, July>>, risposi ridendo.
<<Comunque sì, è una vecchia passione>>, sospirò. <<Una volta, quando ero piccola, caddi dallo scivolo e piansi per un giorno intero. Mi ricordo che la sera, mentre mi stavo ancora tamponando la ferita perché il sangue non voleva smetterla di scorrere, arrivò tuo padre con quel giacchetto scuro comprato in qualche nuovo Wall Mart vicino casa. Mi aveva preso una vecchia macchina fotografica! La prima foto scattammo fu proprio quella del mio cerotto>>, disse in maniera malinconica. La stanza a destra aveva una porta color turchese, una volta entrata notai la bellezza di quel miscuglio di colori. Il pavimento di legno, un letto posto all'angolo della stanza con una deliziosa coperta rosa, un quadro della skyline di New York sopra la parte più corta.
Davanti al letto c'era una scrivania con sopra un piccolo televisore e posto al suo fianco un enorme armadio color rovere.
<<Siccome conosco i bisogni di una donna>>, disse sorridendo Zia July mentre poggiava la valigia sul letto, <<abbiamo due bagni separati, il tuo è quello davanti mentre il mio è dalla parte opposta vicino alla mia camera>>.
Mi strinse in un abbraccio goffo, la conoscevo da poco ma già mi piaceva, era una persona socievole e piena di vita.
<<Ti lascio da sola per farti sistemare in pace le tue cose>>.
<<Grazie mille per tutto, July>>.
<<Niente malinconia in questa casa, niente malinconia!>>, esclamò.
<<Certamente>>, dissi ridendo.
<<Io intanto apparecchio la tavola e ti aspetto giù. Pizza o Cinese?>>, chiese sorridendo.
<<Mhhh...Cinese!>>.
<<Abbiamo anche gli stessi gusti! A dopo dolcezza>>, disse uscendo dalla stanza. Con fare lento e felice sistemai le mie cose. Non avevo mai avuto una camera così bella, avevo sì un piccolo spazio nel loft a Soho, ma niente di così personale. Già mi ci stavo immaginando dentro con le mie amiche. Sistemai i miei vestiti nell'armadio e la biancheria in alcuni cassetti. Avevo portato solo due cose realmente importanti con me: un biglietto della metro e la foto dei miei genitori. Certe volte dobbiamo avere qualche piccolo oggetto che ci riporti al nostro passato.
Questa casa già mi piace. Misi le mie cose nel bagno.
Era una stanza piuttosto piccola e fornita solo dell'essenziale: una doccia ed un lavandino con sopra uno specchio. Aprii il beauty case e mi sistemai il trucco, poi mi pettinai i lunghi capelli che avevo. Accesi il PC, notai subito un cavo internet collegato alla presa più vicina e lo infilai nell'apposita porta del computer. Feci qualche giro sul web, poi misi una canzone e finii di sistemare la mia camera. Spesso la vita ci cambia le carte in tavola solamente per vedere se siamo preparati. Credevo che sarei andata ad abitare in qualche casa puzzolente, con una signora anziana altrettanto puzzolente. Udii il rumore di una macchina uscire dal vialetto e, nemmeno due secondi dopo, sentii July urlare dalle scale che era pronto in tavola.
Mi sembrava di stare da un'amica universitaria. Mentre scesi le scale diedi un piccola occhiata alla stanza di July, riuscii ad intravedere solamente il letto color panna. La sala da pranzo era di un rosso fuoco accesso con al centro un piccolo tavolo color castagno, ai lati una piccola dispensa, sulle pareti alcune foto ed infine una porta che dava sulla cucina color marmo. <<Fatti dire che ti sai vestire davvero molto bene, magari sarà l'aria da newyorkese>>, disse mentre si infilava in bocca una manciata di spaghetti di soia durante la cena,
Sorrisi. Avevo riso più in quel giorno con lei che in tutta la mia vita.
<<É lontano il manicomio da qui?>>, chiesi con aria disinvolta.
<<Non molto. Bisogna prendere il traghetto e poi prendere il piccolo sentiero che porta alla stazione, il treno per Raldelc passa spesso>>, rispose tranquilla.
<<Raldelc?>>, domandai.
<<Si, è una piccola cittadina che si trova a 10 minuti da qui, l'ospedale è situato proprio al suo centro. Io di solito vado lì per comprarmi delle scarpe favolose, sai qui arriva poca roba. Tutti i beni primari come cibo, acqua e vestiario arrivano solamente una volta al mese, tramite una barca speciale>>.
Annuii. Parlammo per il resto della serata di vestiti, trucchi ed altre cose da donna. Non ho mai avuto amiche con cui parlare, spesso infatti sentivo l'esigenza di scrivere un diario.
Poi arrivò quel pensiero maledetto.
<<Quando inizia la scuola qui?>>, domandai cercando di sembrare calma.
Avevamo finito di mangiare da un pezzo, ma lasciammo tutti i piatti sul tavolo. Zia July mi aveva detto che quella sera li avrebbe puliti lei, mentre io il giorno dopo.
<<Non mi piace quello sguardo. Comunque dopodomani>>, disse con voce affabile.
<<DOPODOMANI?>>, esclamai allibita.
Scoppiò in una risata fragorosa, io invece stavo andando nel panico. <<Mi sembri me alla tua età. Alla scuola e ai problemi adolescenziali possiamo pensarci più tardi>>, disse con aria allegra. <<Intanto domani ho preso un giorno libero in ufficio, così posso portarti a fare shopping per l'ultimo anno scolastico e poi posso accompagnarti da tua madre per la prima volta, in modo da informarci bene sull'orario di visite ed i visti speciali>>, continuò.
Mi diede un bacio sulla guancia e mi disse di andare a letto.
Ubbidii all'istante. July lavorava come segretaria per il sindaco di LandLake, che, da quanto avevo capito, era un uomo molto enigmatico ed impegnato, ma sopratutto molto attraente. Quella notte mi infilai tra le coperte in maniera familiare e mi addormentai profondamente. Ero contenta, per una volta sembrava che la vita stesse girando nel verso giusto.
Pensai che forse avrei potuto togliere la maschera da bambina piena di problemi e metterne una da ragazza normale. Le cose che mi spaventavano di più erano in quel momento erano l'incontro con mia madre e il mio primo giorno a scuola. Non vedevo mia madre da quattro settimane, quindi ero più che giustificata, mentre la paura del primo giorno di scuola in fondo viene a tutti. Essendo una città piccola e isolata, pensai che LandLake dovesse avere sempre gli stessi alunni distribuiti nelle varie classi, dubitavo infatti che qualche nuova famiglia si fosse instaurata lì nel corso degli anni
Sarebbe stato il classico primo giorno da ragazza nuova: non avrei avuto amiche alle quali chiedere l'orario di lezione me non avrei avuto idea di come sarebbero stati i miei compagni di corso. Mi capitava spesso di volermi sentire più forte e di essere in grado di non tenermi più tutti i sentimenti addosso. La mattina seguente notai subito delle piccole macchie trasparenti sulla finestra della mia camera. Si era alzata una leggera nebbia mattutina che rendeva impossibile intravedere bene le cose all'esterno. Mi alzai dal letto con un sorriso stampato in faccia. Dopo una dolce doccia, mi asciugai i capelli e li pettinai, poi mi misi addosso una maglione blu, dei jeans chiari ed un giaccone con disegnate sopra delle rose. Guardai tutti i miei shorts e provai una grande malinconia. Mi sistemai per l'ultima volta davanti allo specchio e uscii dalla mia camera.
July aveva cucinato dei pancake, sentii il loro profumo in cima alle scale.
<<Buongiorno Aria >>, disse vedendomi arrivare.
Mangiammo velocemente ed uscimmo subito dopo. Arrivammo alla baia in 10 minuti con un taxi, durante il tragitto avevamo finto di essere due sorelle venute in città per fare nuove conoscenze e l'autista ci aveva persino creduto.
Non era poi così presto, ma in città c'era pochissima gente. Erano tutti vestiti bene ed in modo formale, sembravano papà o Tyler. Sentii un morso allo stomaco.
Questa volta il traghetto era pieno di persone, il cielo era grigio sopra le nostre teste e la leggera brezza fredda mi baciava delicatamente le guance.
Arrivati dall'altro lato della costa, Zia July mi fece vedere il piccolo sentiero che portava alla stazione nel modo più rapido. <<Segui questi>>, disse indicando dei piccoli segni su alcuni alberi.
La stazione era la stessa di ieri, solamente che questa volta era affollata ed io mi sentivo meno sola.
Il treno era rimasto invariato. Impiegammo pochissimo tempo per arrivare a Raldelc, la stazione si trovava al centro di questa cittadina nata nel bel mezzo della foresta che si poteva scorgere da LandLake. Era più piccola di LandLake ma c'erano molti più abitanti, il treno si fermo lentamente e scendendo notai il bellissimo cappotto di July. Era nero e pieno di brillantini sulle spalle che andavamo a sfumarsi verso la vita, tutti gli uomini che le passavano davanti le sorridevano.
<<Zia>>, mormorai mentre uscivamo dalla stazione. <<Perché non sei venuta ad abitare a Raldelc?>>, domandai. Non sapevo nulla sul suo conto, non era sbagliato informarsi.
<<Beh, LandLake ha il suo fascino>>, rispose sarcastica. In parte aveva ragione.
Mi propose un caffè veloce prima di andare da mia madre e ci fermammo in una piccola caffetteria davanti alla stazione. Lei ordinò un cappuccino, io un caffè doppio.
<<Non voglio essere evasiva, ci conosciamo solamente da ieri sera ma...>> le dissi mentre sorseggiavamo il caffè sedute in un angolo. <<Perché ti sei trasferita da Chicago?>>, continuai.
Rise. Le sue risate avevano un potere calmante su di me.
<<Per colpa dell'amore tesoro mio>>, rispose malinconica. Bevve un sorso e mi guardò negli occhi.
<<Prima di vivere in un città al centro di un lago, in perenne agonia tra il poco nuvoloso e la nebbia, avevo un attico al centro di Chicago. I tuoi nonni avevano molti soldi e, essendo la loro ultima figlia, lasciarono la loro intera eredità a me>>, si schiarì la gola. <<Un giorno incontrai un uomo. Era perfetto: aveva i miei stessi gusti, le mie stesse abitudini. Certe volte pensai persino che fosse un mio ipotetico fratello scomparso. Più tardi scoprii che aveva intenzione di chiedermi di sposarlo, che voleva avere un futuro con me. Avevo vent'anni all'epoca, credevo che il mondo potesse finire all'istante, così gli dissi di sì. Il guaio di noi donne è che abbiamo molti problemi. Abbiamo il cervello in continua agitazione, in frenetica attività per trovare una soluzione a tutto. Poi arrivò un giorno in cui tornai a casa e lo trovai impiccato in bagno. Ho letto da qualche parte che gli esseri umani tendono spesso al suicidio, lo considerano una salvezza. Vedi Aria, da allora ho cercato ogni giorno di capire il motivo per cui ci avesse anche solamente pensato, ho dato molto spesso la colpa a me stessa per non essergli stata vicina, ma la verità è che è impossibile avere delle risposte certe. Non sono entrata in quel bagno per circa due mesi, mi lavavo a pezzi nel lavandino in cucina, avevo paura di tornare a casa, spesso pensavo di ritrovarmelo dietro in mutande e con una brioche in bocca. Così decisi di scappare da me stessa, cercai su internet qualche posto isolato e mi apparve subito il nome di LandLake>>. Mentre parlava ogni tanto sorseggiava la tazza del caffè, muoveva in continuazione gli occhi e cambiava tonalità di voce.
La capivo, capivo il dolore che aveva provato, perché era lo stesso che mi sentivo io addosso.
<<Ora però mi sento molto meglio, sono felice e piena di speranza>>, concluse.
<<Si vede, insomma, sei una persona sorridente e sei capace a far sorride anche me>>, risposi.
Una volta finito di bere uscimmo fuori dalla caffetteria. Ero cosi felice che July si fosse aperta con me, io non l'avrei mai fatto; in un futuro lontano certamente sì, ma non conoscendola da così poco..
Il vento fuori era gelido, mi veniva difficile credere che fosse ancora estate.
<<Ti sei scaldata con quel caffè?>>, mi chiese July.
Annuii sorridente, mi guardò per un secondo e poi si incamminò verso il centro cittadino.
<<Lo vedi quel rettangolo nero composto da mattoncini grigi?>>.
<<Sì, lo vedo>>, dissi guardandolo.
<<Quello è l'ospedale>>, confermò.
Era un edificio mediocre, aveva in basso una targhetta incisa, una volta arrivata lì vicino riuscii a leggere cosa c'era scritto:

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