Chi di noi donne ha vissuto la maternitá, puó assicurare che vedere nascere un figlio è un momento indimenticabile. Cosí fú con Erik. Uscendo dal mio ventre vidi la sua testolina con abbondante capelli neri, e, pochi secondi dopo incominció a piangere. Io piangevo con lui. L'abbiamo aspettato con impazienza, tanto amato e desiderato dal primo momento del suo concepimento.
Appena nato, mia sorella, mia madre e alcuni famigliari residenti in quel momento a Barcellona vennero a visitarmi in gruppo, come una tribú, come siamo abituati a muoverci e a riunirci noi latini. La stanza dell'ospedale era piena di persone, non ci stava piú nessuno. Suo padre Jan allora, incominció ad innervosirsi perché non capiva cosa ci facesse tanta gente lí.
È da capire che nel nord Europa si viva questo momento con gelosa intimitá, bisogna persino chiedere permesso ai genitori per visitare un neonato. Dall'altra parte peró bisognava anche capire gli usi e le abitudini del circolo in cui stavamo. Molto complicato nel mio caso, perché oscillavamo trá due mondi, cosa che degeneró in una crisi di coppia invece di essere un momento dolce e tanto sognato. Molte volte sembra che queste situazioni non si possano superare e benché non si riesca a dimenticarle del tutto, bisogna imparare a convivere con loro. Erik è cresciuto sentendo queste differenze esistenziali, spero che gli rimangano impresse solo quelle positive: l'improvvisazione latina e la disciplina svizzera, per esempio.
Suo padre voleva che si chiamasse Erik Ernesto. Il primo nome fú scelto perché cosí si chiamavano alcuni membri della sua famiglia Svedese; il secondo, in memoria del Che Guevara. Dopo la lunga storia dei miei nomi si capirá come mi rifiutai che gli si mettesse un nome composto. Il nome è il nostro primo segno d'identitá, quello che ci identifica; per questo bisogna pensarlo bene.
I primi anni Erik li trascorse a Barcellona, intanto che suo padre viaggiava continuamente per motivi di lavoro. Sin da piccolo si dedicó al hochey sul ghiaccio, soprattutto per la tradizione nordica della famiglia – logicamente da parte del padre – visto che da parte mia non avevo neanche mai visto una partita di questo sport, e dubito che qualcuno della mia famiglia lo avesse mai fatto. Dopo una decina d'anni accompagnandolo non solo sulle piste di ghiaccio, ma anche a competizioni in diverse cittá, posso condividere la passione per questo sport molto affermato nel nord e centro Europa, in Russia e nel Nord America.
Mi è costato distinguere quella minuscola rondella che sparano violentemente i giocatori, con enormi protezioni e pattini affilati, contro una piatta porteria che erroneamente sembra facile da coprire- mio figlio, che è portiere, fá di tutto per difendere questi tre pali- per di piú mi risultano complicate le regole e le norme delle esigenti partite.
Voglio ricordare quí un aneddoto. Successe mentre Erik si cambiava nello spogliatoio della sezione di hochey su ghiaccio del Futbol Club Barcelona, una entitá polisportiva con piú di una decina di sezioni. Erik parlava tranquillamente con il compagno che stava vicino a lui, il figlio dell'allenatore canadese di quella stagione. In un determinato momento mi avvicinai per lasciargli una bottiglia d'acqua e ascoltai:
- È tua madre? – chiese il bambino nord-americano.
- Certo – rispose Erik, senza capire il senso della domanda.
- Sembra un'india – replicó.
Ci furono dei millesimi di secondo di perplessitá. Mio figlio e io ci guardammo. Subito dopo, ispirata da quello che stavo leggendo in quel momento, Ines del alma mia, della mia adorata scrittrice Isabel Allende, replicai:
- Effettivamente, appartengo alla tribú degli indios mapuches, i feroci lottatori che tagliano le teste dei loro nemici!- mi sentii dire.
Da allora questo compagno di squadra di mio figlio, sgattaiolava via tutte le volte che mi vedeva, terrorizzato dalla descrizione romanzata che avevo fatto di me stessa. Ad Erik affascina la storia di questi indigeni cocciuti, che vivono combattendo per il loro territorio nell'America del Sud. Ogni volta che vado in Cile, visito i musei e le esposizioni su di loro, che sono diventati di moda per il chiasso che fanno adesso gli ecologisti e i difensori dei diritti indigeni. L'ultima volta sono ritornata con le valigie piene d'interessanti bibliografie su questi indigeni e con rimedi naturali che scovai nelle farmacie mapuches Makelawen – in mapudungun significa gente della terra – che si trovano dappertutto a Santiago, e offrono creme idratanti, analgesici, antinfiammatori, rilassanti, sonniferi, anticancerogeni, creme per l'eterna gioventú e persino afrodisiaci. Prodotti di una tradizione millenaria, affermano loro. Molti – c'è una grande quantità di gente comprando questi rimedi – confidano ciecamente in questi prodotti. Jan dice che piú passano gli anni piú aumentano questi intrugli sul mio comodino; non ci avevo pensato, però è vero. Bisogna lasciare spazio al ricettario ancestrale e alle formule magistrali.
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Con l'anima divisa in tré
Non-FictionSapevo di dover scrivere le mie vicissitudini ed ottenere che fossero interessanti da leggere. Mi sono divertita nel riunire e collegare trà di loro i miei appunti, vederli plasmati in questo libro -entrando in scena -, scritti all'inizio senza un o...