Mi fece strada fuori dalla porta e mi condusse verso una balla di fieno. Non mi ero mai arrampicato prima sopra a qualcosa di così grande e scivoloso, senza appigli, ecco. Infatti, mentre lui con un balzo era arrivato in cima, io cercavo ancora di aggrapparmi a qualcosa, una sporgenza, qualsiasi cosa. Paolo mi guardò e rise. Mi inquietai, non mi piaceva essere preso in giro per le mie capacità. Inesistenti in quel caso.
"Ah, vedo che sei uno scalatore nato! Scommetto che in città non vi arrampicate da nessuna parte, se non sugli specchi ogni volta che aprite bocca."
Rimasi stupito da questo giudizio espresso in modo così convinto e convincente, quasi. Le sue parole mal celavano un certo disprezzo, nato probabilmente da una brutta esperienza. Ma non avrei fatto domande.
"In città le uniche montagne che abbiamo sono quelle di libri da studiare" risposi ridendo. Rise anche lui. Mi porse la mano, sporgendosi. Un ricciolo gli ricadeva sulla fronte e sembrava venire verso di me. Il venticello gli muoveva i capelli. Gli afferrai la mano. Era fredda. Mi tirò con forza e mi lasciai sfuggire un "ahia!". Scrollò il capo, divertito.
"Quando avrai finito di piagnucolare, guarda in alto" mi disse. Lo feci. La notte era nerissima. C'erano tantissimi puntini bianchi. Non ne avevo mai visto così tanti. Guardavo la Via Lattea e le stelle, una per una. Mi sembravano belle e uniche, nonostante fossero tutte uguali. Più a lungo osservavo, più numerose diventavano. E la Via Lattea! Sembrava un lenzuolo candido che attraversava tutto il cielo. Era lucente. Tutt'intorno il paesaggio sembrava dormiente sotto a quel manto luminoso. I campi che avevo visto dal finestrino ora erano solo delle grandissime distese buie. Ma non era quel tipo di buio che mette paura. Era un buio che sottintendeva una pausa della luce e della vita, che sarebbe ricominciata al sorgere del sole. Rimasi davvero estasiato davanti a quella vista. Ci pensò Paolo a rompere la magia del momento.
"Sì, sì, tutto bellissimo, ma chiudi la bocca o entreranno le mosche."
Lo guardai. La luce gli illuminava la mascella squadrata.
"Che guastafeste" pensai. Ma optai per qualcosa di meglio da dire.
"Dovresti scrivere un libro su come rovinare i momenti magici."
"Lo so, ho un talento."
Sorrise e fece finta di buttarsi i capelli indietro, come pavoneggiandosi. Poi prese una corona inesistente e se la mise in testa con fare altezzoso. Ridemmo entrambi. E poi riprese.
"In città si vedono le stelle?"
"No" risposi. Spostai lo sguardo alle stelle. Era vero, per colpa dei lampioni e dei fari delle auto non avevo mai potuto vedere niente di simile. Non credevo nemmeno potesse essere reale, l'avevo guardato solo in fotografia. Stemmo in silenzio per un tempo che non saprei quantificare. Poi incominciai a dire qualcosa io. Per la prima volta.
"Quando ero piccolo, mio padre mi diceva sempre che le persone quando morivano diventavano stelle. E io ci credevo, tanto che, quando è morta mia nonna, le parlavo dal terrazzo."
"È bellissimo. Davvero."
Mi guardò. I suoi occhi mandavano un bagliore luminoso, parevano contenere una di quelle stelle che stavo osservando fino a un secondo prima. Poi guardò l'orizzonte e colse un piccolo pezzo di fieno. Lo fissò a lungo, poi parlò.
"Mi dispiace per tua nonna, perdere pezzi della propria famiglia è doloroso."
Ebbe un fremito. Era stato lieve e me n'ero accorto soltanto perché ero molto vicino a lui.
"Se ho toccato un tasto dolente mi dispiace, non avrei dovuto dirlo." mi rammaricai. Non era mia intenzione dargli un dispiacere.
"Ti ha detto tua madre di non parlarne? Previdente. Ha fatto bene: è un discorso che odiamo sia io che mio padre."
Il suo tono di voce era diventato tutto d'un tratto duro.
"Un'altra cosa: c'è una porticina in fondo al corridoio, non so se ci hai fatto caso. Non menzionarla mai quando c'è mio padre. E non fare domande, per favore. È un altro tabù di casa, sono gli unici due."
Senza saperlo aveva risposto alla mia domanda.
"Quindi l'avevi notata, eh?" mi disse, con un sorrisino malizioso in viso. Accidenti al mio rossore e alla mia espressività! Non riuscivo a nascondere niente a nessuno.
"Beh, in effetti sì. Non tirerò mai fuori il discorso, lo prometto."
"Anche se saresti curioso di saperne di più." "Non lo ammetto, ma non lo nego."
"Ti basti quello che ti dirò ora. Era la stanza preferita della mamma. Non faceva entrare nessuno. Diceva che tutto ciò che veniva fatto lì dentro era un segreto. Dopo essersene andata, mio padre l'ha chiusa a chiave e non vuole che nessuno la apra. Nè io nè lui sappiamo cosa ci sia dentro."
"Tu sai dov'è la chiave?"
"No, ma mio padre non ha molta fantasia, nasconde tutto sempre negli stessi posti, quindi la potrei trovare quando voglio."
Allora era una cosa comune ai padri nascondere le cose male! Una volta quando avevo cinque anni chiesi a Babbo Natale un gioco da tavolo. Il ventidue dicembre, mentre giocavo a travestirmi con Sam, il mio amico d'infanzia, aprii un armadio con dei vecchi vestiti della mamma e trovai un gioco da tavolo. Ero figlio unico. Fu quel giorno che scoprii che Babbo Natale in realtà non esisteva e piansi tanto, dando ai miei genitori dei bugiardi. Parlai.
"E non hai mai provato a cercarla?"
"No."
Ero esterrefatto. Lui sapeva dove si trovava e in tutti questi anni non l'aveva mai presa? Non aveva mai voluto vedere cosa sua madre era così gelosa di custodire? Anche questa volta indovinò i miei pensieri.
"Se mia madre non voleva che io lo vedessi allora non lo vedrò nè ora nè mai"
Aveva un tono risoluto. Il discorso era finito.
"Domani staremo fuori una giornata e cammineremo molto, dobbiamo riposarci."
Disse così e, senza voltarsi verso di me, scese dalla balla. Mi dispiaceva, le stelle erano bellissime. Ma non dissi nulla e saltai giù anch'io. Riprese Paolo a parlare.
"Allora, campione, domani dovrai vestirti con roba di poco conto, non ti assicuro che tornerà intera a casa."
Pensavo a tutti gli abiti belli che mi ero portato. Non erano tutti eleganti, certo, ma erano tutti o nuovi o costosi.
"Temo di non aver niente di adatto."
"Ti presterò qualcosa io. Forse ti starà un po' grande, ma va bene lo stesso, no? Non credo che tu voglia rovinarti i vestiti."
Forse avrei avuto un aspetto trasandato e stupido, anche perché Paolo era un po' più alto e grosso di me, ma ero molto geloso dei miei abiti, quindi non esitai.
"Grazie, accetto volentieri." gli risposi. Senza accorgermene, eravamo arrivati nel corridoio della casa, davanti alle nostre camere. È assurdo come il tempo si restringa o dilati in base alle circostanze. Quando fai qualcosa che ti piace o sei in buona compagnia passa sempre velocissimo. L'orologio rintoccò la mezzanotte, significava che eravamo stati fuori due ore. Paolo parlò.
"Quando hai finito di fissarmi la fronte andiamo a dormire?"
Abbassai lo sguardo e arrossii. Non avevo intenzione di fissarlo, semplicemente stavo pensando.
"Ci trovi gusto a farmi arrossire" gli risposi "quando invece non dovresti. Buonanotte."
Mi voltai velocemente ed entrai in camera, spingendo la porta e richiudendola alle mie spalle. Andai verso la finestra e la spalancai. L'aria, nonostante fosse maggio, era ancora fresca a causa del venticello leggero. Mi chiedevo di nuovo come avesse fatto a cambiarmi così tanto il fatto di stare in una realtà sconosciuta. Prima ero convinto di essere una persona e ora scoprivo esserne tutt'un'altra. In città non avevo mai pensato, nel senso che non mi soffermavo sui dettagli, non arrossivo in presenza dei miei coetanei, non rimuginavo sulle cose. In quel momento credevo di aver perso me stesso e di star inventando un me nuovo e diverso. Molto diverso. Non sapevo se mi dispiacesse o no. Ricreare se stessi da capo a diciassette anni poteva essere un vantaggio, data l'esperienza acquisita. Ma avevo il sospetto di non poter controllare il cambiamento, cioè che questo avvenisse da solo. Guardavo davanti a me. C'erano colline buie, illuminate solo dalla luna. La luna! Quella notte splendeva come mai avevo visto in vita mia. Era solo uno spicchio dopo la luna nuova di due giorni prima. Mi veniva in mente Alice nel Paese delle Meraviglie. Era sempre stato il mio cartone animato preferito e mi piaceva talmente tanto che lo guardavo tutti i giorni, leggevo il libro, lo recitavo. Avevo imparato tutte le battute delle parti in cui era presente la regina di cuori. Non lo sapeva nessuno. "Un uomo che ama Alice? Cos'è, una ragazzina?" avrebbero pensato, per poi ridere di me. Che fossi anch'io in un'altra realtà come lei? Che la tana del coniglio fosse nella mia realtà la strada percorsa? In effetti, pur non essendoci personaggi strani e pur non accadendo niente di apparentemente inspiegabile, mi sentivo in un luogo completamente diverso. E quella luna mi sembrava il sorriso dello Stregatto. Credevo di vederlo con le sue strisce fucsia e viola ridere, apparire, contorcersi e sparire. Lo sentivo cantare. E il sorriso dello Stregatto mi ricordò quello di Paolo. Quel ragazzo che improvvisamente era piombato nella mia vita. Era ovvio che l'avrebbe fatto dal momento che vivevo ormai a casa sua, ma io lo sentivo come qualcosa di inaspettato. Un brivido freddo mi percorse la schiena. Era il vento? No. Era il ricordo della sua mano, gelida. Mi ricordavo di aver letto che la temperatura delle varie parti del corpo varia in base alle emozioni. Le emozioni che fanno raffreddare le mani sono la tristezza e la depressione.
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Lasciare la strada vecchia per la nuova
Teen FictionMatteo, un ragazzo di 17 anni, è costretto a trasferirsi a casa dell'amico di sua madre Marco. È deciso a cambiare vita, soprattutto dopo aver conosciuto suo figlio Paolo, un ragazzo bellissimo di 18 anni, con cui nascerà una bellissima amicizia, fa...