Parte 4

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Mi svegliai felice al canto del gallo. Strano, di solito odiavo alzarmi presto. Sbadigliai e mi sedetti sul letto. Solo guardandomi intorno realizzai di non essere nella mia camera. Mi tornarono in mente tutte le cose successe il giorno prima. Mi alzai ed entrai in bagno.
"Buongiorno."
Chi mi scocciava la mattina presto? Cosa volevano da me? Vedevo tutto appannato, così mi stropicciai gli occhi. Era alto con i capelli ricci e biondi. Paolo.
"Ci sei?" mi disse.
"Sì." biascicai.
"Sei tra noi?"
"Io? Cosa? Sì certo. Ma tu cosa ci fai qui?"
"Questo bagno è in comune, ricordi?"
Non capivo cosa stesse dicendo e così stetti lì a guardarlo con un'espressione da ebete, aspettando che mi tornasse la memoria per ispirazione divina.
"Ecco la tuta che ti ho promesso ieri. È la più stretta che ho, dovrebbe starti. Mettitela addosso. Ti aspetto di sotto, mio babbo ha preparato il pranzo al sacco. Dobbiamo andare nel bosco, ricordi?" si avviò verso la porta, ma si bloccò e si girò verso di me "Ah, e ripigliati."
Spalancai gli occhi. La gita! Solo ora me ne ricordavo. Mi lavai la faccia con l'acqua gelata e mi vestii. Dopo cinque minuti ero pronto e stavo scendendo le scale.
"Buongiorno." mi disse Paolo vedendomi.
"Buongiorno a te." risposi.
"Cosa ne avevi fatto prima di Matteo?"
"Ho bisogno di almeno dieci minuti la mattina per capire chi sono e dove mi trovo."
"Me ne sono accorto, andiamo."
Lo seguii. Girammo attorno alla casa e ci ritrovammo davanti un bosco. Gli alberi erano alti e fitti, con foglie scure, ma un sentiero di terra battuta lo percorreva nel mezzo. Non lo avevo notato il giorno prima, probabilmente era nascosto dal tetto. Mi guardavo attorno mentre camminavo dietro a Paolo. Mentre vedendola da fuori l'atmosfera sembrava tetra, una volta entrato scoprii che pareva una foresta incantata. Il sole passava attraverso le foglie e proiettava coni di luce all'interno. Uno scoiattolo si arrampicò veloce su un albero, girando attorno al tronco. Poi sentii un fruscio alla mia destra. Qualcosa si mosse e mi si parò davanti. Mi bloccai e gridai. Paolo accorse. Iniziò a pervadermi un formicolio tutto il corpo, salendo dalla punta dei piedi. Tremavo e sudavo freddo. Sentivo Paolo preoccupato chiedermi cosa stesse succedendo, ma io ormai vedevo tutto annebbiato e avevo la sensazione di star galleggiando. Poi tutto divenne nero.

Aprii un occhio. La luce mi invase, era fortissima, quindi lo richiusi. I suoni erano ovattati. Cercai di muovermi, ma ero come immobilizzato. Poi piano piano riuscii a sollevare una palpebra e a sentire una voce che pronunciava il mio nome ancora e ancora.
"Che infarto mi hai fatto prendere. Come ti senti?"
"Bene."
Questa parola mi uscì flebile, avevo la mandibola quasi immobilizzata.
"Si risponde sempre così quando non si sta bene."
Puntai le mani a terra cercando di mettermi seduto. Spinsi il terreno con tutta la forza che avevo, ma non mi muovevo di un millimetro. Paolo comprese le mie intenzioni e mi porse la mano. Io la afferrai e lui mi tirò su lentamente, come avesse paura di farmi del male, come fossi qualcosa di prezioso e delicato. Lo apprezzai molto, soprattutto ricordandomi di come mi aveva strattonato la sera prima. Una volta alzatomi, iniziò a girarmi la testa e abbassai di conseguenza lo sguardo, socchiudendo gli occhi.
"Allora?" mi disse.
"Io... cos'è successo?"
"Speravo me lo dicessi tu. Stavamo camminando da un quarto d'ora quando ti ho sentito gridare. Sono tornato subito indietro e ti ho visto immobilizzato che guardavi a terra. Hai iniziato a tremare e poi sei svenuto. Ti ho portato qui sperando che non fosse successo niente e..."
La memoria mi stava tornando. Mi ero chiuso all'interno della mente per riordinare le idee e capire cosa fosse successo.
"Ofidiofobia." risposi.
"Ofidioche...?"
"Ofidiofobia: paura dei serpenti."
Amavo studiare le fobie, perché avevano dei nomi strani, ma affascinanti e perché erano le più disparate. Le mie preferite sono senza dubbio la cromatofobia (paura dei colori) e l'ommetafobia (paura degli occhi altrui). Ed ero quasi sicuro di soffrire di quest'ultima visto che lo sguardo ceruleo di Paolo mi stava letteralmente manomettendo il cervello.
"Paura? Ne ho vista di gente che odiava i ragni o i cani o i serpenti, ma mai nessuno era diventato una statua sudata e tremante per poi svenire in mezzo secondo. Parlerei più di terrore."
Guardai lontano un albero. C'era un'atmosfera sospesa e io avevo la sensazione che Paolo volesse dire altro, ma non ne fosse sicuro. Mantenni il silenzio per dargli la possibilità di decidere. Aprì e richiuse la bocca più volte, lo vedevo con la coda dell'occhio a sua insaputa.
"Io" iniziò "gioco a calcio. Sarebbe meglio dire che giocavo a calcio. La mia squadra mi aveva preso di mira per... beh, non importa, era un motivo stupido. Avevano poco cervello e l'hanno ampiamente dimostrato. Un giorno eravamo tutti in spogliatoio, loro mi presero e mi chiusero nello sgabuzzino, poi dissero al mister che ero in bagno perché non stavo bene. Quel giorno c'era l'allenamento la mattina, poi saremmo dovuti andare a pranzare e infine saremmo tornati a cambiarci. Restai chiuso lì sei ore. Lo sgabuzzino era talmente piccolo che si poteva stare solo in piedi e talmente basso che dovevo tenere le gambe piegate. Dopo venti minuti già mi formicolavano. Diventai claustrofobico. Non ho mai raccontato a nessuno di quel giorno."
Non gli chiesi il motivo per cui l'avessero preso di mira, ma avrei voluto tanto saperlo. Forse un giorno me l'avrebbe rivelato o l'avrei scoperto io. Volevo dirgli qualcosa di rassicurante.
"Credo che tutte le paure siano scatenate da un avvenimento e non siano puramente innate, anche se ci potrebbe essere una certa propensione o genetica."
"Ma tu" disse ridendo "tu sei un filosofo. Da ora ti chiamerò Socrate. Tralasciando gli scherzi, sì, la tua teoria è plausibile."
"Felice di essere chiamato con questo soprannome, spero solo che non mi darai la cicuta da bere."
Rise. "Se non mi fai partorire idee a tradimento, non userò metodi estremi quali il veleno." rispose.
"Non te lo posso giurare, mi diverto molto a usare la maieutica."
"Ho qualcosa di peggio della cicuta: ti farò arrossire. Pensi che non abbia visto che ti succede spesso?"
E infatti diventai un peperone. Mi imbarazzava il fatto che le persone lo notassero, era qualcosa che sfuggiva completamente al mio controllo.
"Chissà che brutto arrossire. Non puoi nascondere nulla."
Annuii e decisi che era il momento giusto di alzarmi visto che ci trovavamo seduti io rivolto verso la sua destra e lui verso la mia guancia.
"Riesci ad alzarti in piedi?" mi disse indovinando i miei pensieri.
"Sì." risposi.
Mi sollevai da terra e ricominciammo a camminare.

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