Mi sforzai di rimanere calmo. Dopotutto finché non gli avessi dato una conferma a parole o gesti, non poteva avere la completa sicurezza.
"Terra chiama Mat."
"Scusa amico. Andiamo."
Non disse una parola e gliene fui grato. Mi pareva di camminare in una bolla e di avere sotto ai piedi una nuvola al posto dell'erbetta smeraldo. Mi muovevo a scatti, o era solo un mio presentimento, proprio come fanno i robot che imitano i bambini durante i loro giochi. La mia testa era un pallone pieno d'aria e questo non mi dava la possibilità di essere conscio delle mie azioni o parole, stavo per scoppiare. Feci tutto meccanicamente: "camminare, salutare, sedersi, mangiare, sorridere" ripeteva il mio cervello agli arti. Marco non si accorse del mio stato pressoché vegetativo, ma mi sentivo gli occhi di Paolo e Dav addosso. E sapevo per certo che avrebbero entrambi voluto delle spiegazioni. Ripresi quindi controllo di un pezzettino di materia grigia per inventarmi qualcosa di sensato e vicino alla realtà. Compito arduo. Soprattutto nella trance in cui ero caduto. La scusa del sonno mi pareva la migliore fin quando non mi ricordai che Paolo aveva dormito con me. Un mal di testa? Sì, un forte mal di testa.
"Scusate" dissi "mi pulsa la testa in una maniera assurda, vado in camera."
Non avevo aspettato la loro domanda per non farli sospettare e... ci ero riuscito. Me la stavo ridendo da cinque minuti sotto i baffi steso sul letto quando qualcuno bussò alla porta.
"Un bel respiro e una faccia tranquilla, ma dolorante e stanca" mi ripetei tra me.
"Avanti."
La porta su aprì e Dav rimase sullo stipite.
"Farò finta di credere alla tua scusa e non ti chiederò spiegazioni perché aspetto sia tu a darmele. Io levo le tende, ci vediamo."
Oh, beh, perlomeno ne avevo adescati due su tre. Un buon numero. Non feci in tempo a rispondere che udii passi sulle scale che si allontanavano. Avevo bisogno di una doccia fredda. Approfittai dell'assenza del riccio per fiondarmi sotto al getto, sperando con tutto il cuore che non salisse. Sentii chiudere la porta d'ingresso e tutto tacque. Ero in compagni della sola solitudine. Ma non quella solitudine opprimente che ti intristisce, bensì quella che ti fa star bene con i tuoi pensieri. Quella solitudine che ti fa dire "to', posso sentirmi libero di fare, dire e pensare quello che voglio senza che nessuno mi senta o veda le mie espressioni." Sospirai sollevato. Avevo accumulato molta pressione in quei pochi giorni senza accorgermene. L'acqua lavò via la mancanza di accettazione di me stesso, i nuovi sentimenti che agitavano la mia mente, il nuovo padre che mi fissava ridendo. Ma lo sapevo, sapevo che dietro al suo sorriso si nascondevano tante domande. Tante domande rivolte a me. Mi asciugai i capelli con un asciugamano, poi me lo legai in vita e uscii dalla camera. Sentivo delle voci provenire dal piano inferiore, ma... non dovevo origliare. Non è giusto farlo, probabilmente erano conversazioni private."Sai benissimo il perché è qui."
Parlavano di me. Eggià, non sarei dovuto sgattaiolare fuori dalla camera per ascoltarli.
"No, non lo so, illuminami."
"Ne abbiamo già parlato."
Di cosa?
"Ah sì? Beh, io non lo voglio."
"Li vedo i tuoi occhi, stanno urlando esattamente il contrario. Non puoi mentire a me, come non poteva tua madre. Assomigli troppo a lei. Capisco e capirò sempre cosa ti passa per la testa."
"Abbassiamo la voce, il nostro ospite ha spento l'acqua della doccia."Il lenzuolo mi aveva sempre fatto sentire protetto, fin quando ero piccolo. Dopo che io e Dav vedevamo un horror o ci raccontavamo storie di paura, prendevo il lenzuolo e mi ci seppellivo sotto. Piuttosto che dormire senza, avrei patito le pene dell'inferno a causa del caldo o dormito nudo. Se avessi vissuto i cinquanta gradi del deserto sarei stato felice di lasciare che il lenzuolo che mi avrebbe ricoperto diventasse quello funebre. E così mi sentivo in quel momento: al sicuro. Forse può sembrare un comportamento stupido o immaturo, ma io non ero mai sottostato a questi preconcetti per cui il maschio deve essere senza dolore e senza paura. Noi ragazzi siamo come voi ragazze, perché non possiamo piangere? Fin da piccolo quanto mostri una debolezza ti dicono "non fare la femminuccia" o "sei un uomo". Bene, se essere una femminuccia significa dimostrare sensibilità sono felice di esserlo. Sì, sono proprio fiero di non essere l'"uomo" che i genitori ti insegnano ad essere. Anche se in realtà i miei, di genitori, non mi avevano insegnato nulla. Dovevo essere il perfetto figlio di papà, sempre vestito bene ed equilibrato, dovevo prendere il massimo dei voti a scuola, non potevo andare a feste, dovevo partecipare a tutte le cene di gala, dovevo sorridere davanti a tutti quei falsi che fingevano di essere simpatici e gentili solo perché i miei genitori erano "pezzi grossi della società", come si definivano loro. Dei dottori in carriera perfetti con una vita perfetta, ma con un figlio tutt'altro che perfetto. Mostravano la facciata dei bravi genitori, di quelli a cui importa davvero del proprio figlio. Ma la realtà era ben diversa. In tutte le domande che mi facevano c'era solo l'interesse di sapere se io fossi il ragazzo perfetto che volevano. E non erano mai contenti di me. Notavano solo gli errori, mai un complimento è uscito dalle loro bocche. Ormai la cosa non mi scalfiva più, ma per abituarmi ci avevo messo tanto tempo. Non mi sarei stupito se avessi scoperto che mi avevano portato da Marco per liberarsi di me. E non per affari. Che affari impegnativi potevano mai esserci in ospedale? Ed io, a diciassette anni, che fastidio potevo dare? Era impossibile che fossi d'intralcio, la mia vita si divideva tra scuola, studio e calcio. O meglio, loro non sapevano che uscivo quasi tutte le notti dalla finestra di casa e passavo la maggior parte delle giornate a casa di amici, data la loro assenza. Ma come avrebbero potuto accorgersene? Mi vedevano solo a cena. E io facevo in modo di non mancare e di rispondere ai loro quesiti mostrando un bravo ragazzo che in realtà non ero mai stato. Perché il bravo ragazzo che vogliono non esiste. Mi addormentai con questi pensieri in testa, senza sapere la risposta all'unica domanda che era inevitabilmente martellante nella mia mente: perché mi hanno portato qui?
![](https://img.wattpad.com/cover/223426653-288-k431092.jpg)
STAI LEGGENDO
Lasciare la strada vecchia per la nuova
Teen FictionMatteo, un ragazzo di 17 anni, è costretto a trasferirsi a casa dell'amico di sua madre Marco. È deciso a cambiare vita, soprattutto dopo aver conosciuto suo figlio Paolo, un ragazzo bellissimo di 18 anni, con cui nascerà una bellissima amicizia, fa...