Parte 32

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"Un cobra."
Mi guardava negli occhi. Ogni tatuaggio ha una sua spiegazione.
"Da quando un serpente mi ha morso, li ho temuti tutti. Ho smesso di andare in montagna, ho smesso di fare camminate nell'erba alta. Ho vissuto nella paura che potesse riaccadere. Tenermi un cobra sul braccio per tutta la vita deve essere il segno che io supererò questa paura e la porterò come trofeo."
Era completamente muta, una sua caratteristica che avevo scoperto: quando le parli di qualcosa di suo interesse, si perde nell'ascoltarti e nel pensarci, donandoti non solo attenzione, ma anche consigli e riflessioni. E in quel momento sapevo che il cricetino nel suo cervello stava correndo all'interno della ruota e producendo energia elettrica che sarebbe servita ad accendere la lampadina. Dopo qualche secondo, si illuminò, si sciolse in un largo sorriso e mi battè il cinque per incoraggiamento. Nessuna parola sarebbe stata migliore per dirmi io ci sono e ti sostengo. Tornando a casa le parlai di Paolo. Le dissi ogni mio dubbio sul suo orientamento e lei mi assicurò che con la mia bellezza l'avrei convertito (cosa che mascherava un certo scetticismo sull'argomento in relazione a lui) e che probabilmente aveva già scoperto il mio interesse, dal momento che non sarei riuscito a nascondere il più piccolo dei segreti ad un bradipo senza testa.
"Questo non va affatto bene. Potresti aver perso l'unica chance che avevi con lui."
"Confortante."
"Sono estremamente sincera, lo sai."
Lo sapevo. Era come se la conoscessi da sempre. Passare una notte con una persona ti permette di scoprire molte cose che alla luce del sole non noti. Potrebbe sembrare un controsenso, ma se ci si pensa bene, nell'oscurità non ci curiamo di quello che ci sta intorno e ci concentriamo unicamente su ciò che ci sta insistentemente accanto e possiamo scorgere. La vista, senso che predomina col sole presente, è azzerata con l'avvento delle tenebre e lascia spazio all'udito. Una volta entrati dalla porta d'ingresso, dopo essermi assicurato che l'auto non ci fosse, scoprii di essermi sbagliato dallo scalpiccio che si avvicinava. I passi di mia madre.
"Disgraziato. Sempre fuori stai invece di fare quello che dovresti, vale a dire adempiere ai tuoi doveri in quanto figlio di due persone importanti nella società. Se non ti avessi partorito io, direi per certo che non sei neanche mio figlio. Datti immediatamente una raddrizzata o ti chiuderò a chiave in camera per una settimana. Hai capito?"
Le urla di mia madre risuonavano per le stanze come delle note musicali.
"Sono diciassette anni che mi sgridi con le stesse parole e mi punisci allo stesso modo, non è ora di rinnovarsi? Io ricorrerei alla tortura fisica fossi in te, quella psicologica non funziona."
Tentai di salire in camera , ma proprio in quell'istante una terrificante fera dalle sembianza femminili mi si parò davanti.
"Oh ciao cara, non ti avevo vista. Come ti chiami?"
"Carola."
"E dove vivi?"
"Nella parte sud della città."
Mia madre storse il naso e la mia pazienza arrivò al limite. Avevo sempre odiato i pregiudizi che l'"alta" società aveva sulla "bassa". Anche se una persona non nasce ricca o facoltosa ciò non significa che sia malvagia e da evitare, anzi. Nel nord città girano solo i falsi con la puzza sotto il naso, pronti a sparlare di tutti ai media, mentre nel sud sono sicuramente più rozzi, ma più alla mano e inclusivi. La donna che mi aveva partorito mi guardò truce e se ne andò ticchettando sulle décolleté nere lucide. Mi voltai verso la ragazza al mio fianco e la trovai con le lacrime agli occhi. La voglia di spaccare tutti i vasi costosi presenti nell'enorme stanza lanciandoli contro ai muri perfettamente tinteggiati salì alle stelle. In quel momento sentii il bip bip di un messaggio.

Inizio a stufarmi.

Il messaggio era cambiato, la pazienza finita. Avevo comunque iniziato ad attuare la seconda parte del piano, per cui non potevo fare niente di più. Mostrai il display illuminato a Carola, che subito comprese e mi rivolse un sorriso che di rassicurante aveva solo l'intento. Ma anche lei non poteva fare niente di più.

Scesi a cena, consapevole del fatto che mia madre non avrebbe permesso un'amicizia fra nord e sud. Varcai la soglia della sala da pranzo dentro la quale un religioso silenzio regnava sovrano. Il pater familias era stato informato. Mi sedetti noncurante. Mi mancava mia nonna in quei momenti più che mai. Lei era come me. Apparteneva all'alta società per il cognome e non per lo stile di vita. Quando mio nonno morì, lei aveva solo quarant'anni e da allora aveva smesso di comportarsi con sufficienza. Sono cresciuto con lei e con la sua educazione libera di cui i miei non erano a conoscenza. Più crescevo e più mi accorgevo che vivevo in un modo che non mi piaceva e da cui cercavo di evadere ogni giorno di più. E cercai sempre nuovi modi per uscirne, fin quando approdai all'autolesionismo. Con il sangue che scorreva fuori di me, mi sentivo sempre più svuotato anche dalle sensazioni negative e talmente esausto da avere la mente completamente libera. Ero leggero. Una piuma. Ero in un'altra dimensione, più rosea, più bella, meno falsa. Raggiunsi il culmine quando mi tagliai entrambi i polsi profondamente e mi trovarono i miei genitori steso svenuto sul pavimento. Mi aveva salvato la loro ossessione del controllo. Ma io non volevo essere salvato. In quel momento li avrei ringraziati. Grazie a loro avevo conosciuto due amici meravigliosi. Grazie a loro avevo scoperto l'amicizia, l'affetto, le farfalle nello stomaco. Grazie a loro stavo vincendo la mia paura per i serpenti. Grazie a loro stavo vivendo davvero. Ma, come sempre, i miei pensieri felici vennero interrotti bruscamente da mio padre. E se era lui a parlare, la faccenda era davvero seria. Ma non mi importava. Non mi importava di nulla se non di rivedere Paolo in quel momento. Da quando lo avevo lasciato mi sentivo incompleto. Perché è così quando non hai più la persona che ami di più al mondo.
"Dobbiamo parlare."

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