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–Vi ho mai raccontato del periodo in cui vivevo in un palazzo come questo?– chiese ad un certo punto Natalya Long ai suoi due sottoposti, mentre scendevano le scale. Ognuno dei due portava sulle spalle un Immacolato, Laurence Moore e Montgomery Rudolf. Entrambi erano feriti e senza sensi, ma ancora vivi.
Si trattava di due energumeni geneticamente perfezionati dall'organizzazione per cui la donna lavorava. Le loro capacità di processione mentale erano state massimizzate per renderli più veloci e più insensibili al dolore, oltre che più accondiscendenti agli ordini dei superiori e meno inclini a desideri o imprese personali. In cambio, ciò li aveva inspiegabilmente resi dei conversatori molto meno interessanti, e questo, aveva sempre pensato Natalya Long, era un peccato in quanto, nonostante tutto, a lei era sempre piaciuto avere delle persone interessanti con cui parlare. L'obbedienza, tuttavia, aveva i suoi pregi.

In verità, il fatto che i suoi sottoposti non fossero troppo avvezzi a parlare non significava che essi fossero in qualche modo stupidi o meno capaci di comprendere che cosa intendesse dire la donna. Natalya Long era famosa nel suo settore come una delle agenti più esperte e capaci e questa sua professionalità si rifletteva nel suo passato che, di fatto, nessuno conosceva. Di quando in quando usciva qualche versione, ogni volta diversa, ma tutti sapevano già che ci sarebbe stato molto poco di vero in tutto quello che si sarebbe raccontato.
Natalya Long ovviamente preferiva così, che nessuno sapesse chi fosse realmente, in modo da poter diventare chiunque, alla bisogna.

–Era un luogo molto povero. La mia famiglia era molto povera, come tutte quelle che vi abitavano. Mio padre... lavorava tutto il giorno, tornando a casa senza forze, distrutto, pieno di risentimento verso la vita. Iniziai a lavorare in un certo locale all'età di quattordici anni per guadagnarmi qualche spicciolo in più. Ero scappata da poco da casa. Sapete come funzionano queste cose, una madre un po' troppo apprensiva, un padre un po' troppo... entusiasta dei suoi metodi educativi. Non mi ci trovavo male...– si sfiorò la spalla sinistra e rabbrividì per un breve istante. –Solo che sapevo che avrei potuto divertirmi di più altrove. Così mi trasferii in un quartiere un po' più ricco e benestante, nella stessa casa di alcune ragazze, e mi misi a cercare un lavoro per mantenermi. Fu divertente. I clienti del locale erano tutta gente simpatica, un sacco di storie da raccontare, se solo ti andava di sentirle. Omparavo in fretta i trucchi del mestiere. Il proprietario era un vecchio signore, un po' burbero, che mi insegnava come comportarmi, insultandomi un po'. Ma in fondo sapevo che si era già affezionato a me. Fatto sta, un giorno entra nel locale questo ragazzo spaventato. Ha con sé una pistola ma, ovviamente, non sapeva come utilizzarla. Era nervoso, molto nervoso. Tentò una rapina, ovviamente. La prima cosa che fece fu provarci con il vecchio. Ma quello era un osso duro, un idiota testardo. Si mise a battibeccare con il ragazzo. Aveva subito altre rapine nella sua vita, sapeva che la maggior parte delle volte quelle pistole erano false, non ci credeva nemmeno che quel ragazzino gli avrebbe sparato. Probabilmente fu perché tremava troppo, sì, probabilmente fu per quello. Gli urlò di smettergli di dirgli cosa fare, puntando la pistola in avanti, e aveva così tanta paura, tremava così tanto, che il colpo partì. Quando sentii il sangue che mi colpì il volto, quando lo vidi che cadeva a terra, lentamente, così lentamente, all'indietro, inarcando la schiena, reclinando la testa, in silenzio totale, dopo quel boato, quel silenzio meraviglioso... pensai che fosse una scena bellissima. E quando il ragazzo comprese cosa aveva fatto, io mi alzai, andai da lui, e gli dissi che era finita, che era meglio che mi desse la pistola, e che ora doveva smetterla. Lui mi guardò come si guarda un angelo, cercando l'assoluzione per il suo peccato. Mi diede la pistola. Non tremava più. Sapeva di aver superato una linea, di non poter più tornare indietro, e che adesso il suo destino era segnato per sempre. Già. Gli dissi che sarebbe andato tutto bene, gli dissi che doveva fidarsi di me. Si sarebbe fidato di me? Lui disse di sì, sapeva che poteva fidarsi di me. Si sarebbe per sempre fidato di me. Gli sparai in testa. Mi era costato il lavoro, quel piccolo idiota...

Natalia Long sorrise, stringendosi nelle spalle, deliziandosi a quei ricordi, veri o falsi che fossero.

Uscirono dal palazzo. I due energumeni portavano in braccio Moore e Montgomery, mentre Natalya Long avanzò incuriosita verso la pozza di sangue che era rimasta di Tim Goldberg.

–Ah, no, no, no. Non va bene. Non c'è più molto da prendere qui. Lasciamo perdere.
Poi si voltò, e vide Roxanne Silas tremante a terra poco distante. Le sorrise, quando incrociò il suo sguardo. Si raddrizzò e si avvicinò verso di lei.

–Ma salve, piccolina.– le disse, quando le fu vicina.
Lei non le rispose. Si limitò a guardala, terrorizzata e tremante, riversa a terra vicino al mostro, in stato confusionale.

–Non trovi che sia una splendida giornata questa per avere paura?

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