Il tramonto si era consumato in fretta inglobando l'intero insediamento nelle luci azzurre di una notte senza nuvole, governata da una luna piena, splendente, e dallo stridere dei freni degli Elobus sospesi tra gli alti palazzi. Anche la folla rumoreggiava, ma le voci insieme al rumore dei passi non ci raggiungevano nell'alto della Torre Radio, il punto più elevato dell'intero insediamento.
Non so cosa mi spinse a rifugiarmi lì, quella sera, né cosa avesse spinto il Grillo a seguirmi senza obiettare, tacendo di un silenzio diverso, un silenzio carico di nuovi turbamenti, nuove angosce, emozioni che conoscevo e che condividevo con lui proprio in quelle ore.
Neppure ricordavo come fosse andata la giornata di lavoro, quali campioni avessi analizzato, quante volte avessi rimandato in ciclo cisterne di materiale. La mia mente era ottenebrata dalla paura, dal terrore, dalla cupa angoscia di essere catturato, internato, rieducato.
"La società non tollera i pervertiti che vogliono scopare con le macchine" aveva detto più volte, Munillipo. "Non siamo sopravvissuti per inseminare le macchine, l'insediamento deve crescere, deve prosperare. Noi siamo i vettori dell'ultimo materiale genetico umano presente sul pianeta, noi siamo la chiave per ricostruire il mondo di domani"
Il mondo di domani.
Lo stesso mondo che né Maleva né Naftalia credevano possibile, lo stesso mondo che io, ora, nelle tenebre della notte, non credevo più possibile.
"Le cose sono sempre destinate a cambiare" materializzò il Grillo, leggendo i miei pensieri.
- Non dovrebbe essere così - risposi. - Non dovrebbe essere mai così.
"Devi accettarlo" rispose il Grillo.
- Quindi, quale sarebbe la tua idea?
"Affrontiamo anche questo problema, insieme siamo forti"
- No, insieme non siamo forti, siamo solo condannati.
"Condannati?"
- Sì, condannati a nasconderci, a scappare, a mascherare la nostra vera natura.
"Sai che non è così".
- E allora perché non mi dici la verità, perché non mi racconti veramente cosa sai? Che cosa mi stai nascondendo?
"Niente"
Niente.
In un impeto di rabbia sbattei la testa contro una delle travi metalliche che sorreggevano le antenne sulla cima della struttura.
"Sei pazzo?"
Avrei voluto aprirmi il cranio, estrarmi il cervello e cercare quel piccolo parassita per schiacciarlo tra pollice e indice. Il Grillo lo percepì dato che sentivo netta la sua paura gravarmi sulle spalle.
- No, sono solo stanco di tutta questa storia, della colonia, di Obasi e anche di te. Avevi promesso che mi avresti aiutato a realizzare ogni mio desiderio, avevi promesso che non ci sarebbero stati problemi.
"Non ce ne saranno"
- Ce ne sono già! - esclamai.
"Li risolveremo, noi possiamo risolvere tutto, insieme".
- Come?
"Lascia a me il controllo"
- Perché?
"Fidati"
Digrignavo i denti mentre un rivolo di sangue mi percorreva la fronte. Non sentivo dolore, solo rabbia, una rabbia cieca, immotivata, la rabbia dei miei desideri repressi, di quelle recondite perversioni che di nuovo non avrei potuto soddisfare.
- Andiamo a cercarli - dissi, lanciandomi verso il basso appeso ai rampini.
"Non farlo, non farti guidare dalla rabbia, non fare che..."
Spensi il cilindro, non c'era altro di cui discutere.
Non avevo idea di dove stessi andando né sapevo cosa cercare con precisione. Tutto ciò che facevo era correre, balzare tra i palazzi, arrampicarmi lungo le vecchie grondaie, mi muovevo da una parte all'altra dell'insediamento come una trottola, esplorando i tetti dei palazzi dei Vot cercando qualsiasi traccia che mi indicasse chi mi stava cercando.
Cercavo altri segni, altri stencil, altre figure umane su quei tetti oscurati da piante, panni stesi, pannelli solari ed il costante vibrare elettrico di antiche centraline tenute in funzione per miracolo.
Guardavo, osservavo, cercavo. Mi muovevo per l'insediamento con la frenesia di un folle, con una febbre di rabbia e paura che il Grillo, con il vibrare delle sue antenne, non riusciva a placare.
Chi mi stava cercando? Forse agenti di Munillipo? Uomini di Obasi? Impossibile, i modi del bigoverno erano diversi, loro avrebbero semplicemente perlustrato gli interi Vot vuotando ogni cassetto, ogni cassa, ogni armadio, alla ricerca del mio equipaggiamento. Ma allora chi? Chi era a conoscere la mia identità? Chi era che sapeva del Grillo?
Balzai su un alto palazzo, sotto di me decine di metri di vuoto, di fronte a me l'intera colonia e lì in mezzo una figura rosa intenta a saltare tra un palazzo e l'altro.
Improvvisamente tornai indietro a qualche giorno prima, a quella visione che mi era sembrata un miraggio, a quel Grillo che balzava tra i tetti visto dall'Elobus.
"Quindi non era stata una visione" pensai, mentre il nostro sosia si allontanava verso il Centro.
Non ci aveva visti, del resto lui era troppo lontano e non aveva nessun equipaggiamento particolare, cosa che lo rendeva goffo, simile a me quando per la prima volta avevo sperimentato il parkour sotto la guida del Grillo.
Lo seguii tenendomi a debita distanza e stavolta neppure il Grillo provò ad opporsi alla mia rabbia, si era taciuto, le sue antenne non vibravano più, le sue zampe non raspavano, era vigile, attento, incuriosito tanto quanto me da quella visione così improvvisa e disorientante.
Arrivato ai confini del centro virò verso est, verso la distesa nera dell'oceano notturno, verso le basse barriere che separavano la città dalla zona delle Officine.
Superate le barriere sorvegliate ci trovammo nella distesa di magazzini e capannoni dell'area artigianale, dove i minerali estratti da Loro diventavano leghe e metalli che a loro volta sarebbero diventati filtri, bulloni e parti di ricambio.
Anche a quell'ora della notte gli operai delle turnazioni si davano il cambio al ritmo di martelli, presse idrauliche, fresiatori e saldatori industriali, macchinari che non riposavano mai se non quando un guasto, uno dei numerosi secondo ciò che mi aveva raccontato più volte Malaeva, non li obbligava ad un riposo forzato.
Balzai alle spalle del mio sosia, inseguendolo attraverso un percorso sconosciuto persino a me, attraverso reti tagliate, griglie, scivolando nell'ombra alle spalle degli edifici, all'oscuro degli operai impegnati nei lavori.
Arrivammo ad un edificio isolato, una specie di vecchia fabbrica fatiscente dai vetri rotti ed il tetto sfondato. Lì l'uomo si fermò, guardandosi attorno per accertarsi che non vi fosse nessuno, poi entrò attraverso una delle finestre sul retro.
- Ci siamo... - mormorai, dimentico di aver disattivato il cilindro.
Scivolai in direzione della finestra e tesi l'orecchio verso l'interno, delle voci, attutite forse dalla distanza, mormoravano nell'ombra parole che non riuscivo a comprendere.
Mi arrampicai lungo le canaline elettriche esterne, raggiungendo la cima in pochi istanti per poi calarmi dal tetto divelto nel freddo buio del capannone.
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Cybervert
Science FictionUn viaggio in un mondo in esaurimento, in una società spaccata tra esseri umani e automi, nelle perversioni di un uomo attratto dalle macchine.