Fu sera e fu mattina

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Quando mi risvegliai il sole rovente del deserto aveva preso il posto delle luci intermittenti della notte ed io sudavo, sdraiato sul vecchio materasso lurido, con il ventre fasciato da garze verdastre, in lino di alga. Mi toccai, finita l'eccitazione rimaneva il dolore, ma era un dolore buono, il dolore che mi faceva sentire di nuovo vivo, di nuovo libero dalle costrizioni dell'insediamento, dalle rigide regole sociali applicate all'interno delle Torri. 
Mi tornò in mente quel discorso di Naftalia, quello su di noi, piccoli topi in trappola, così ottusi e compiacenti verso noi stessi da non renderci conto che eravamo pallide larve bianche, gonfie e pulsanti, incapaci di percepire il pericolo derivante dalla grossa scarpa che presto ci avrebbe schiacciati. 
Un vento basso spirava dal deserto fischiando tra le fessure delle case silenziose, ora che tutti Loro erano impegnati a scavare sotto le Ciminiere era lui il vero padrone della bidonville, lui e il caldo torrido del sole. 
All'improvviso pensai al campione del 121, quello che raccolsi il giorno della scomparsa di Malaeva, quello contrassegnato dal rischio 128. Preso dalla foga degli eventi me ne ero completamente scordato, chissà che fine aveva fatto? Chissà se era ancora nel suo frigo, avvolto nel mio appunto, in attesa di quelle ulteriori indagini che non avevo mai fatto.
Mi sentivo stranamente libero, stranamente sereno, tentato da quella rinuncia definitiva che avrebbe sancito la fine di me e del Grillo come entità individuali, destinati a diventare un'unico essere attraverso la fusione delle nostre coscienze. In fondo cosa eravamo noi se non due coscienze già divise che ora cercavano di tornare insieme? 
Mi alzai dal letto cercando di rivestirmi senza riaprirmi le ferite.
Mi sistemai alla meglio, senza uno specchio né acqua per lavarsi non era un'impresa facile ma pensai di riuscire lo stesso ad avere un aspetto decente. 

Il dolore al basso ventre mi accompagnava ad ogni passo, ma oramai era diventata una presenza familiare, quasi piacevole, un comodo rimpiazzo per il posto lasciato dal Grillo, ora muto spettatore di quei momenti di calma. 
Camminai per un po' nei sentieri di polvere della bidonville, contrariamente a ciò che credevo non ero solo, i Loro rimasti lì erano in tanti, alcuni impegnati in semplici riparazioni, ristrutturazioni ordinarie tra quei cubicoli in materiali di recupero che servivano giusto a proteggerli dallo sbalzo termico, i più però si erano radunati nei pressi della pista, ora silenziosa, battuta dal vento. 
Sedevano in file ordinate, in semicerchi concentrici rivolti in direzione del Faro. Sembravano monaci, santi di una religione cromata stretti in meditazioni digitali, una sorta di conciliabolo di spettri sulle note di una muta frequenza radio.
Camminai tra quelle fila ammirandoli estasiato, tutti quei corpi lucidi, quelle figure perfette benché in molti casi deturpate dal tempo. Desiderai avere il cilindro per indossarlo, per captare quelle frequenze radio che frizzavano nell'aria attorno a me, invisibile rete neurale, matrice di ogni domanda e di ogni soluzione. 
Trasportato dalla mia stessa curiosità desiderai andare avanti, esplorare più a fondo quel campo di asfalto consumato, quegli hangar di cemento armato pieni solo di ombre, casse di legno marce, carcasse metalliche consumate dal vento e sommerse dalla sabbia mista alla rossa polvere della ruggine. 
Vecchi pachidermi alati dai finestrini vuoti mi osservavano piegati su se stessi, mentre un passo alla volta superavo quella bianca distesa di sole,  quegli antichi ruderi, memorie sbiadite di un tempo più felice, in cui il mondo si muoveva ancora ad una velocità regolare e fin dove si estendeva lo sguardo era regno dell'uomo. 
Arrivai nei pressi dell'alto faro dove la vernice scrostata riportava ancora traccia degli antichi quadrati rossi e bianchi che ne decoravano la superficie ed una porta sfondata vomitava una serie di cavi, questi più recenti, che comparivano dal terreno artigliandosi alle scalinate consunte, ingombre di calcinacci, fino alla cima in cui sibilavano le ventole di un gigantesco macchinario scuro circondato di vetri rotti e polvere. 
Guardai il paesaggio da quella cima, ignorando l'enorme computatore ed il calore che questi emanava. 
Tutt'attorno a noi c'era solo il deserto, dalle montagne al mare, una landa brulla costellata solo di pietre su cui l'aria ribolliva, deformando il paesaggio per chilometri senza interruzione. 
A un certo punto però vidi qualcosa brillare, in riva all'orizzonte, proprio al bordo delle pendici dei primi monti, dove la terra cambiava colore diventando scura. 
In quel momento mi domandai ciò che non mi ero mai domandato: cosa c'era oltre quella catena? Cosa c'era oltre quel muro di pietra? Oltre quel deserto che non lasciava scampo? Era proprio vero che il mondo degli uomini oramai si riduceva a questo insediamento? A questa utopia per topi dove brulicavamo e ci riproducevamo nel tentativo di rallentare la nostra inesorabile sorte? 
Non avevo acqua né viveri, quel mattino, e benché le ferite all'inguine mi facessero ancora un male d'inferno mi incamminai per il deserto, seguendo il punto in cui era spuntato quel bagliore che oramai avevo già visto più volte a intervalli così irregolari che faceva pensare a una qualche attività umana. 
Marciai tra la polvere, su una sabbia che era come terra dura, un mosaico rossastro su cui crescevano solo piante morte, dita scheletriche che si elevavano al cielo, che si congiungevano in preghiera domandando acqua. 
Ogni tanto affiancavo qualche roccia più alta, godendo del lieve refrigerio che quell'ombra dava alla mia pelle sudata, ma non mi fermavo mai, troppa era la foga di camminare, il desiderio di scoprire. 
Marciai oltre ogni stanchezza, ignorando le privazioni oltre ogni ragionevole limite, varcando orizzonti che prima non avevo mai neanche guardato se non distrattamente, dalle mie quotidiane escursioni fuori dalle Torri per andare a lavorare. 

Fu sera e fu mattina, il primo giorno. 

Mi ridestai che il sole era già alto. Nel piccolo pozzo che avevo scavato ferendomi le mani si era formata una piccola pozza d'acqua che potei bere prima di rimettermi in viaggio. 
Il deserto era di nuovo immenso, implacabile, alle mie spalle l'insediamento era solo una figura distante, distorta dal calore, e il mare invisibile dietro la curvatura del terreno. Ero lontano, lontano come non lo ero mai stato, lontano in quei territori di morte. 
Avevo sempre guardato al mare, al freddo oceano azzurro, alla fonte di tutta la vita, di tutta la bellezza, eppure ora, camminando in quella valle devastata, riuscivo a cogliere una nuova bellezza, una bellezza diversa, il fascino discreto della desolazione, della morte, qualcosa che aveva sempre fatto parte di me, delle mie perversioni, della mia sottomissione a perfezione ed eternità. 
Incontrai quello che doveva essere stato un villaggio o una cittadina dei tempi passati, ora ridotta a miseri muri storti, angoli di edifici consumati dal vento. Malinconiche finestre vuote incorniciavano l'eternità della desolazione, l'implacabilità del calore che asciugava tutto, persino gli odori, sterilizzando quel mondo in disfacimento i cui ingranaggi giacevano ora nella polvere, attorno a me, sotto forma di quelle abitazioni spoglie che un tempo avevano accolto la vita e la gioia degli esseri umani. 

Fu sera e fu mattina, il secondo giorno. 

L'acqua che trovai nelle antiche fondamenta del villaggio mi permise di riprendere le forze, così camminai tutta la notte, ininterrottamente, affrontando il freddo del deserto fino al sorgere spietato di un nuovo giorno, di altro sole battente pronto a cuocermi le mani ed il viso in quel viaggio che sembrava infinito. 
Verso metà giornata trovai i resti di ciò che doveva essere una strada asfaltata, un rettilineo pallido oramai sommerso dalla polvere, spaccato dal sole, un puzzle di blocchi di asfalto ondulati dal tempo. 
Ruderi di antichi veicoli, così invasi dalla ruggine da assomigliare a rocce, spuntavano di tanto in tanto, ma erano tutti gusci vuoti, non c'era traccia degli antichi proprietari né di altro se non di metallo sottile, oramai diventato quasi friabile, destinato anch'esso ad arrestarsi come tutto, a diventare parte di quel deserto infinito che aveva avvolto il mondo. 

Fu sera e fu mattina, il terzo giorno. 

Mi svegliai che era notte fonda e costellazioni di stelle mi ruotavano silenziose sopra la testa. Eterne. Loro veramente eterne, più dei loro corpi cromati, delle loro menti riproducibili all'infinito. 
Da qualche parte avevo letto che tutti noi siamo fatti della stessa materia che incendia le stelle, le stesse sostanze di base.
Sollevai una mano, anche nell'oscurità potevo vedere che era gonfia, bruciata. 
Mi alzai in un vestito di aghi, il mio corpo era tutta una scottatura, il volto insensibile, le mani si muovevano a fatica. Da quanto non bevevo? Da quanto non mangiavo? 
Proseguii, sospingendo gambe sempre più stanche che sembravano macigni, camminando nel fresco di quella notte eterna alla ricerca di un riparo, ma non durai molto e prima che tornasse di nuovo la luce caddi a terra senza riuscire a rialzarmi.

Fu sera e fu mattina, il quarto giorno.

Il gracchiare di un gabbiano mi riportò al mondo della luce. 
Ero arrivato ad una spiaggia?
L'odore di salsedine mi colpì alle narici, ma era solo un ricordo dato che quando aprii gli occhi non vidi né il mare né il gabbiano, solo sabbia, rocce e la deformazione infinita del calore. 

Fu sera e fu mattina, il quinto giorno.

Camminavo che oramai la mia mente era confusa, ottenebrata dalla disidratazione e dalla fame, solo le mie gambe continuavano imperterrite, seguendo quella linea retta, quel bagliore che si era fatto sempre più vicino, mia personale stella cometa in quel pellegrinaggio di dolore. Sarei arrivato, questo sapevo, questo pensava la mia mente consuda. E mentre camminavo immaginavo gli stormi di pesci che vedevo nelle profondità marine, quando ero bambino e con i miei genitori andavamo alla spiaggia a pescare, ad immergerci a testa sotto fino al fondale marino dove molluschi e granchi marini si nascondevano nell'infinita barriera corallina, tra quel prisma di colore, di vita, di pace, di libertà che mi faceva desiderare di rimanere lì per sempre. 

Fu sera e fu mattina, il sesto giorno.

Aprii gli occhi oramai gonfi, miopi, accecati dal sole e dalla sabbia rovente. Un soffio di aria fresca spirava sulla mia pelle portando un inutile refrigerio alle mie carni bruciate, cotte, gonfie e insensibili. 
Poi udii un rumore, chiaro come può essere chiara qualsiasi allucinazione ma quando alzai lo sguardo e vidi quella macchia scura zampettare a pochi passi da me volli credere che fosse un animale, che esistesse ancora una vita terrestre oltre alla nostra, che quel mondo verde e brulicante avesse veramente ripreso a muoversi.
Svenni di nuovo, subito dopo, accasciandomi con la bocca riarsa oramai ad un passo dalla morte. 
"Ma sì, facciamola finita insieme" pensai, ricordando tutti i momenti in cui il Grillo mi era stato alleato, era stato la mia forza, il mio orgoglio, l'unica presenza in grado di spronarmi nell'affrontare quella vita da recluso, quella recita utile solo a nascondere le mie monomanie. "Moriamo insieme una volta per tutte, moriamo come il mostro che siamo sempre stati"



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