Lo splendore nel cuore del Vot

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Vivevo con la sveglia puntata a prima poco prima dell'alba, quando il turbine violento della civiltà esitava ancora, ad un passo dall'affiorare dei sogni, prima di eruttare come una tempesta sulle strade dell'insediamento.
Amavo quella solitudine maledetta del risveglio, quella luce pallida che stemperava l'odore di caffè annacquato e le figure addormentate degli Addetti ai lavori, ridotti ad ombre di fronte ai piccoli caffè dei Vot.
Abitavo nei Vot perché amavo i Vot, ancora più del Centro e delle Torri. Mi piacevano i suoi vicoletti umidi, le balconate in pietra ed i piccoli cafè, le facce degli abbonati dell'Elobus e le finestre degli ultimi piani. Soprattutto quelle, con la loro discrezione sopraelevata e quella visuale aperta verso il centro della città.
La Cattedrale, il Centro, la zona delle Officine, le Torri, i Pontili. L'insediamento era una cellula in sviluppo continuo, in costante costruzione, uno spazio comune ben delimitato fatto di cose, vite, persone. Si chiamava contenimento energetico, vite più vicine, spazi più angusti, edifici più stretti per risparmiare energia, per migliorare i servizi. Ma nei Vot i servizi erano sempre gli stessi da quando ero nato, a parte l'Elobus, e solo Munillipo percepiva questa differenza, che palesava ogni sera, nei suoi discorsi.
"Pil, nuova occupazione, miglioramento della sanità, incentivo alla crescita".
Per me erano solo parole vuote, associate ad un mondo distante, meno discreto, più ampio e complesso di quanto abbia mai voluto immaginare.
Gran parte dei Vot erano un territorio coperto. Traversine e strade erano passaggi a mezz'aria, stesi come ragnatele tra le palazzine. Il terreno apparteneva ai piccoli orti che, sbocciando tra i palazzi, occupando tutto il contorno della città. Gli Elobus levitavano nel mezzo, in quel complesso paesaggio suburbano aggrappati ai loro cavi, tesi come corde di violino tra le facciate abitate e le balconate dei negozi interni.
"Cibo, crescita, prosperità, sviluppo". L'incremento delle colture primarie, la deveicolizzazione delle strade, l'organizzazione funzionale degli spazi comuni. Provvedimenti presi prima del Cpl ma di cui Munillipo continuava a far vanto, a proporre come innovazione, ma di innovazioni non ne avevo mai viste e nessuno, prima di me, poteva dire diversamente.
Il mio appartamento era in alto, tra le distese lucide dei pannelli fotovoltaici e i gabbiani che rumoreggiavano sui tetti la notte. 
Avevo scelto quel posto per due motivi principali, il primo era il costo, gli appartamenti a quel livello sono meno ambiti rispetto a quelli al piano terra perché nessuno, dopo una giornata di servizio, ha veramente a fare quarantacinque rampe di scale per andarsi a riposare in un appartamento mal riscaldato. Il secondo era la semplicità di accesso ai tetti e la disponibilità del cielo, sempre visibile da quell'altezza insieme a tutto il resto dell'insediamento. 

Spesso sfruttavo i tetti per muovermi nella città, avevo imparato a farlo presto, ancora prima che il Grillo mi insegnasse la maniera migliore per correre sui cornicioni o per saltare tra i palazzi. Ora ero un vero esperto, a volte persino più veloce dell'Elobus. 
Salivo sui tetti il mattino, avvicinando la Cattedrale balzando tra le finestre dei vicoli e le vecchie scale antincendio, sospeso sulle piccole stalle e gli orti in fiore. Dalla Cattedrale proseguivo verso i Pontili, gli occhi puntati verso l'orizzonte marino, inseguendo le lunghe vetrate del mercato coperto sino agli inizi della zona delle Officine, poco lontano dall'ombra delle Torri. A quel punto mi fermavo, tornando in strada senza dare nell'occhio per poi scendere alla dogana, superare le Torri e raggiungere il Depuratore.
Amavo correre e balzare sopra l'insediamento, volare sulla testa di tante persone, sulle loro vite.  In tanti anni non mi aveva mai notato nessuno, mentre sgattaiolavo da un cornicione ad un pannello fotovoltaico. Nessuno mi notò neppure il giorno che decisi di salire sull'antenna radio, ad ovest, il punto più in alto dell'insediamento. Probabilmente la gente del Vot, così come l'altra gente, non era abbastanza interessata al cielo da degnarlo di una qualsiasi attenzione, o forse il cielo era rimasta l'unica cosa importante solo per me, l'unico aspetto della vita ancora veramente degno di nota.

Del cielo amavo soprattutto le sfumature di azzurro che assumeva incontrando l'orizzonte, ad ovest, lungo la linea del mare ed i riflessi galleggianti dei motori marini, ma anche il profilo che disegnava sulle montagne, ad est, nella luce bianca del primo mattino.

Il Depuratore era l'unico edificio umano esterno alle Torri e lo era perché anche Loro dovevano partecipare ai processi industriale, anche se solo in parte.
Per arrivare al depuratore seguivo un sentiero lungo la scogliera, lo conoscevamo solo io e Malaeva, all'epoca. E spesso usavamo quella strada perché era discreta, oltre che panoramica, cosa che mi permetteva di assaporare l'ultimo silenzio prima di iniziare il turno. Provavo un senso di profondo piacere nella solitudine, nell'inebriarmi del fruscio delle onde in silenzio, del verso malinconico dei gabbiani che sovrastava quello dei motori marini.

Il Depuratore era un alto profilo azzurro di vetro e metallo. Un contenitore mastodontico di lavoratori e lavorazioni, di analisi e processi.
Nei giorni in cui non facevamo la strada insieme, Malaeva mi attendeva alla bollatrice. Quel giorno, quello della prima sera, lo trovai proprio lì, con lo sguardo scuro e le mani rovinate dalla manutenzione. Subito non disse niente, mi salutò con garbo ma l'assenza della sua solita parlantina mi fece capire che qualcosa non andava.
- Dov'eri ieri sera? - mi domandò, entrati nello spogliatoio.
- Sono rimasto a casa, perché? - domandai, spogliandomi. Un piacevole strato di sudore mi imperlava la pelle.
- Ti sei perso la riunione del Cpl, è successo un bel casino, c'era bisogno di te... - tentò, goffamente, di spiegarmi.
- Quale casino? - domandai, prima di infilarmi sotto la doccia chimica.
Ma era troppo tardi e la campana ci avvisava che erano iniziati i lavori. Malaeva bestemmiò, salutandomi grossolanamente per andarsi a rifugiare al reparto 7, io mi infilai nella doccia. Avremmo parlato dopo.

Durante la mattinata era previsto un black out totale di quasi cinque ore ma, a parte quello, nessuna grossa emergenza da arginare.
Sorrisi.
Almeno per me sarebbe stata una giornata di ordinaria amministrazione.
Gli impegni di un Addetto ai Lavori Scientifico Analitici (AlSA), tesserino verde, erano pochi ma delicati. Si trattava di un controllo sulla qualità biochimica dell'acqua venduta, principalmente un lavoro di laboratorio che, però, non ci esonerava da un certo numero di missioni sul campo.
I miei turni non disponevano di nulla di eccitante, anzi, tutto il tempo era speso tra campioni e provette, nell'abbraccio asettico di un laboratorio e del suo personale. Ma forse era l'ideale, per uno come me.
Malaeva era un Addetto ai lavori di Manutenzioni Elettrotecniche (AlME), tesserino rosso, quindi era distaccato al reparto 7, il filtraggio. A suo dire l'anticamera dell'inferno.
"Il 7 ti ruba la vita" si lamentava. "Lì sotto c'è sempre qualcosa di rotto da riparare. Quel coso sta insieme per miracolo, te lo posso giurare, per mi-ra-co-lo. Come se non bastassero i pezzi rotti ci si mettono quei maledetti cali di tensione, che sono peggio dei blackout!  A volte ti invidio, a te basta una telefonata per bocciarci un intero lotto, a noi serve mezza giornata per pulire e sostituire un dannato filtro. Quel posto dovrebbe essere raso al suolo".
"E poi l'acqua con cosa la depuriamo?" contestavo.
"La beviamo contaminata, tanto chissenefrega! Un giorno anche i depuratori andranno a puttane e con loro andremo a puttane tutti noi!"
In realtà capivo benissimo il suo punto di vista e ciò che diceva era una triste realtà: prima o poi anche questo posto si sarebbe fermato, divorato dalla decadenza di questo mondo contaminato.
Passavo i mesi ad analizzare campioni sempre più scadenti costretto, in molti casi, a far ripetere i cicli di depurazione per intere cisterne di materiale, prima di dare l'ok, ma niente, la situazione invece di migliorare peggiorava, sfuggiva di mano.
Egoisticamente non mi importava, io mi nutrivo di altre sottili disfunzioni, impegnavo i pensieri, tra un ciclo di analisi ed un altro, pregustando quell'inevitabile fine settimana, quel mistico sabato sera.

Al quarto ciclo di test della giornata, giusto un istante dopo l'estrazione dell'ultimo campione di liquido, la porta si aprì con uno scatto ed io rimasi congelato.
Forse era il destino che me lo mandava, che mi inviava un segno.
Era sulla soglia, perfetto. Osservai i suoi lineamenti rigidi, il suo sguardo cinereo, la superficie lucida della sua pelle. Non si erano mai scomodati per venire a parlarci di persona.
Eppure, quel giorno, uno aveva accantonato l'impersonalità delle mail ed aveva rotto quel tabù, era comparso ai piani superiori, nell'assoluta ordinarietà di ogni giorno, quasi come fosse venuto a dare quella comunicazione esclusivamente a me.
- Abbiamo un carico di liquido che necessita una valutazione – aveva detto. - Desideriamo che un AlSA ci raggiunga allo Scalo.   

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