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Ero steso a letto.

Abitavo in un appartamento per universitari con altri tre ragazzi, ognuno pagava l'affitto per un misero posto letto di due stanze doppie, un bagno con nulla più dell'essenziale. Una cucina dove poteva passare solo una persona alla volta e un soggiorno occupato dal tavolo da pranzo.

Guardavo il soffitto aspettando un suo messaggio. Continuavo a rivivere all'infinito la conversazione avuta prima e ogni volta trovavo un errore nei miei sguardi, in quello che le avevo detto e mi sentivo sbagliato: sbagliato come l'idea di andare a parlarle.

Il mio compagno di stanza mi chiese se avevo intenzione di cenare e gli mentii dicendo di aver mangiato sul lavoro; quando era il pensiero di lei a chiudermi lo stomaco. Passarono le ore una dopo l'altra e crollai dopo aver controllato il telefono per l'ennesima volta, era mezzanotte passata.

Nel cuore della notte una suoneria mi svegliò. Scattai in alto, seduto sul letto, presi in fretta il telefono, la suoneria continuava, ormai lo avevo sbloccato e in quel momento dall'altro letto sentii Valerio in un assonnato "Pronto?". Rimasi fermo per un po', con lo sguardo fisso sul display, smarrito. Erano le 3:22.

Mi alzai per andare al bagno, stanco e confuso.

Davanti al lavandino c'era uno specchio e restai a guardare il mio riflesso, che più mi fissava e più mi sentivo vuoto.

Spinto dall'inerzia tornai a letto e spensi ogni sveglia e ogni buon proposito per la mattina che stava arrivando, con la magra consolazione che non sarei stato di turno.

Mi svegliai verso le undici di pessimo umore e senza notizie da parte della ragazza.

Per tutta la giornata ad ogni notifica che mi arrivava avevo un sussulto, prima di scoprire che era mia madre, o un mio amico, o una e-mail dell'università.

Stavo leggendo quest'ultima, quando mi scrisse.

"Ehi Mattia! Sono Vera"

"Scusa se non ti ho scritto prima, sono stata impegnata"

Lasciai perdere tutto e le risposi.

"Ciao! Tranquilla, nessun problema haha"

"Come stai?"

Ero contento, per un secondo mi sembrò quasi che la notte di prima fosse stata solo un brutto sogno.

"Tutto okay, grazie"

"Senti"

"So che non è bello, ma mi sa che dovremo rimandare la passeggiata"

"Non mi sento molto bene e sono sommersa dal lavoro.. scusa"

Qualcosa dentro di me si incrinò in quel momento, ma sapevo perfettamente che non potevo fare nulla.

Ero solo un barista e lei una cliente abituale.

Anche se ora sapevo il suo nome.

"Ma va, figurati! Non c'è problema, se hai voglia più avanti fammi sapere!"

Iniziai a scrivere "Tanto alla peggio ci si vede in bar", cancellai, "Tranquilla, tanto ci si vede domani", cancellai.

Bastava così.

Ero solo un barista e lei una cliente abituale.

"Va bene, grazie mille!"

"Buona giornata allora :)"

Avevo l'amaro in bocca.

"Anche a te :)"

Bloccai il telefono e mi rintanai sotto le coperte.

Mi alzai che era ormai tardo pomeriggio, con la consapevolezza di aver bisogno di camminare per schiarirmi le idee. Restai almeno due ore nel freddo di quel fine febbraio e pian piano, la ferita che bruciava nel mio petto, iniziò a cicatrizzarsi.

Pensai che, in fin dei conti, Vera non sapeva nulla di me e sarebbe uscita con uno sconosciuto, che io se io sapevo qualcosa di lei e volevo saperne di più... nulla mi faceva pensare che potesse essere reciproco.

Così me la levai dalla testa e tornai a casa.

Il giorno seguente ero pronto a comportarmi come se nulla fosse mai successo, ma lei non arrivò e la rividi solo dopo due settimane, quando ormai pensavo che non si sarebbe più ripresentata.

Entrò con lo sguardo perso e mise su un sorriso enorme nel venire ad ordinare, ma era tradita da occhi stanchi come non glieli avevo mai visti.

Mentre le servivo il solito caffè mi fece varie domande, come andava il lavoro, se avevamo avuto tanti clienti nel weekend, se c'era sempre stata la centrifuga vicino alla macchina del caffè.

Quando tirò fuori il portafogli per pagare però non riuscii ad accettare i suoi soldi.

"Lascia stare per questa volta." la mia voce non era particolarmente allegra, ma sapevo di avere un tono deciso.

Mi bucò gli occhi con il suo sguardo.

"No no, è giusto così, tieni, grazie." mi rispose.

"No." e spostai le monete sul bancone verso di lei.

"Davvero, lo voglio pagare! Dai, tieni!"

Non lo avevo realizzato, ma ero arrabbiato.

"No, pagherai quando starai bene." avevo appena superato la barriera del bancone.

Fissò le monete e poi me.

"Tranquillo. Sono solo stanca, ma grazie del pensiero." mi fece un cenno del capo e si avviò verso la porta "Tieni il resto, buon lavoro!" e uscì.

Presi con foga le monete e le buttai in cassa senza neanche contarle.

Passai tutta la mattinata di mal umore, pensando se scriverle o meno.

Per ogni pensiero che diceva "sì", un altro diceva "no" e in gola mi si accumulavano parole da gridare; volevo farle confessare che stava male, volevo costringerla a dirmi cosa c'era che non andava, volevo sapere con tutto me stesso perché beveva caffè con alcol ogni dannata mattina.

Ma chi ero io? Nessuno.

Non avevo alcun diritto di chiederle di parlarmi, di confidarsi, di essere sincera.

La giornata finì e arrivai a casa ancora tormentato dai miei pensieri, ma li chiusi in un angolo della mente e posticipai la ricerca di una risposta.

Cenai controllando il computer. Mi ero fatto una pasta piccante con olio e pomodorini, sullo schermo andava avanti un video del professore di sociologia.

Andai in camera per controllare il telefono che avevo lasciato sotto carica.

Trovai alcune chiamate perse, che ovviamente non avevo sentito perché avevo spento la suoneria, e alcuni messaggi.

"Ehi dcusa"

"Mi sono persa"

"Spno in via vittprio venetp"

"Comw torno s casa?"

Era Vera. Ed era lei che mi aveva chiamato.

I messaggi non lasciavano molto spazio alla fantasia.

Parlami ancora dei fiori d'arancioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora