CAPITOLO 22 - Caffè

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Per un attimo non sono qui. Forse qualcosa più di un attimo. Mi perdo a veder girare i pochi granuli di zucchero che ho gettato nel mio espresso. È quel tipo di zucchero non raffinato, quello fatto da quei granuli ambrati e che, quanto pare, ci mettono molto di più dello zucchero raffinato a sciogliersi. E riesco ad immedesimarmi molto. Quasi riesco a percepire le forti correnti che creo soltanto muovendo questo piccolo cucchiaino .
Ma non sono io a muoverlo. È un'entità altra. Un qualcosa che non sono certo sia dalla mia parte e nonostante io non stia nuotando da solo, questo sport è assolutamente solitario. Nuoto, giro su me stesso, vengo colpito e a volte schivo. Ma solo a volte. Il resto del tempo rimango in balia delle onde, muovo le gambe in un tentativo disperato di non andare a fondo. Per andare dove non so neanch'io. Spero in un posto migliore, come ovvio che sia, ciò che sperano tutti. Ma ciò che spero, ciò che voglio non frega un cazzo a nessuno. Colpisci o vieni colpito, mangi o vieni mangiato. "Welcome to the Jungle" cantavano i Guns n' Roses. Ed avevano ragione. Ma quella melodia orecchiabile il sincopata ha davvero poco a che fare con ciò che sento ora. Ciò che sento è che ho perso l'appiglio su ogni mia volontà, su ogni mio volere un presente migliore del passato che ho lasciato. Ciò che sento esattamente è nuotare nel buio di questo caffè, ignaro di chi nuoti con me, cieco ad ogni via d'uscita ma conscio che più rimango qui in questo liquido prima mi scioglierò e perderò cognizione del mio futuro.
Cassie. Lei si avrebbe saputo cosa fare. O forse no neanche lei, ma con lei vicino sicuramente non avrei nuotato solo. E mi viene in mente lei, ancora, di nuovo, nonostante sia passato tanto tempo e nonostante noi in quel caffè di tanti anni fa ci siamo sciolti e ci siamo persi.
È difficile lasciarsi andare. Fidarsi ed affidarsi. E allora me lo bevo questo maledetto caffè che nonostante ci nuotassero dentro tanti di quei granelli di zucchero è amaro esattamente come la mia vita ed, a forza di osservarlo, anche freddo.
E quasi mi ero dimenticato della mia compagna di colazione. Lì seduta di fronte a me è solo l'ultima delle prove con cui mi trovo a sedere. E non gliene faccio una colpa. Non è lei , sono io. È la mia maledizione che continua a perseguitarmi e lei solamente curiosa. Sì direi molto curiosa , ed anche molto intelligente. Perché Dio solo sa come ha fatto a scoprirlo. Non mi pare di aver fatto sbagli grossolani. Non mi pare proprio. Mi chiede che cosa mi prende, perché sono così silenzioso. Forse teme la mia reazione. Ma non dovrebbe di certo. Per quanto io voglia prendermela con qualcuno, gettare il mio peso sulle spalle di qualcun altro e dargli la colpa di tutto, per Fran provo un affetto vero come quello che si può provare per una persona che non sa ciò di cui sta parlando.
Ed anche il suo atteggiamento è cambiato. Lei sì che era arrabbiata. Lei sì che faceva di tutto per far temere la propria reazione. Ma adesso no. Il mio silenzio la turba, la confonde e la spiazza a tal punto da trasformare la rabbia in preoccupazione e quest'ultima in ansia.
Per questo dal almeno cinque minuti abbondanti non fa altro che chiedermi se mi senta bene, se è tutto a posto, perché questa faccia sembra sul punto di scoppiare a piangere.
« Tu non sai niente Fran. »
« Allora Spiegamelo! »
Troppe. Davvero troppe persone iniziano a sapere troppe cose di me. Temo il passaparola, temo i social, temo che qualcuno possa sentirli o leggerli, qualcuno sulla costa opposta alla mia.
« Allora? »
Continua pungolarmi come fossi una cazzo di piñata, ma da me niente dolci, da me escono solo segreti e bugie.
E allora vomito tutto. Non come ho fatto con Mair, Fran non ha bisogno avere edulcorata la pillola.
Dal principio fino alla fine. Di come i miei genitori, muovendo mari e monti, sono riusciti alla fine a mettere tutto a tacere con la scusante della legittima difesa. Di come gli amici di quel balordo che ho ammazzato abbiano promesso di farmela pagare. Di come l'FBI mi ha gentilmente "consigliato" di lasciare tutto e trasferirmi lontano che quella "non era gente con cui scherzare", come se non lo sapessi. E infine di come, dopo lunghi ripensamenti, ho preso tutto, compreso il mio coraggio, e di come abbia deciso di venire qui in una piccola città dove l'arrivo di un qualsiasi straniero più grande di diciannove anni fa rumore come un treno merci che passa in stazione a tutta velocità. Qui, dove le conoscenze di mio padre avrebbero potuto concordare con me sul fatto che prendere il cognome di mia madre, per quanto mi pesasse avere sempre nelle orecchie il nome di quella donna, non era poi così una brutta idea. Qui nel college che il mio trisavolo Dickerson ha fondato, che mio nonno ha ampliato e che i Dickerson comandano, primi finanziatori di questo baraccone.
Questa è la verità. L'ultima.
Non Cobb ma Dickerson. Aiden Dickerson.
Dio come è strano. Cazzo però solo due mesi. Certo devo ammettere di non essere molto bravo sotto copertura.
« Cristo Aiden... ma perché... il morto... cioè... »
« Fran... lo so, è un casino. Mi dispiace averti vomitato tutto insieme ma non mi hai lasciato altra scelta. »
« E poi... ma sai chi sono i Dickerson per questo college? »
« Direi di sì Fran... altrimenti non sarei qui. »
« E per quale motivo un Dickerson dovrebbe vivere con EJ nel dormitorio quando potrebbe avere una villa tutta sua al centro del campus? »
« Fa tutto parte del piano. Tutto si tiene e perché ciò continui a tenersi è fondamentale che tu non dica nulla a nessuno... ed ora sai anche perché. »
« Porca vacca... Dickerson! Guarda! »
Dallo zaino accanto a lei tira fuori un pacco di brochure del college, le stesse che avevo anch'io tra le mani i primi giorni, le stesse che elogia o la mia famiglia. Ovviamente le hanno scritte loro.
« Cazzo, come fai a nasconderlo? Sei il padrone di questo posto! »
« Mi spieghi come hai fatto a scoprirmi? »
Sblocca con un pin il suo cellulare posato sul tavolo accanto a lei. Una foto ritrae un trofeo.
« C'è una vetrina. È di fronte la presidenza. Torneo di matematica millenovecentosettantanove. Sotto di esso una targa lo assegna a Marisa Cobb. Mi sono chiesta quante possibilità ci potevano essere di una tale casualità e, se non era una casualità, per quale motivo portavi il cognome di tua madre. Ho fatto qualche ricerca online... »
« Fran, ascoltami. Da quando ho varcato quel cancello io sono un Cobb, capito? Per tutti... te compresa. Io continuerò ad essere un Cobb finché le cose non si calmeranno nella mia vita, dimmi che hai capito! »
Mi guarda sorridente e a tratti sognante come se gli avessero detto di avere di fronte un attore famoso. « Non sto scherzando Fran! »
« Ti chiedo solo una cosa, una semplice, piccolissima cosa. »
« Non pensavo stessimo contrattando. »
« Ti chiedo solo di lasciarci dietro ogni problema, ogni ostacolo. Niente di più di ciò che abbiamo avuto fino ad ora. Forse tu pensi che possa star bene con me stessa facendo ciò che faccio, che non mi importi di chi ho intorno. È solo... solo che con te le mie remore spariscono, la stragrande maggioranza delle mie paure sparisce e ne rimane solo una: perderti. Non sono nessuno per chiederti ciò che non vuoi... non una relazione, non l'esclusività. Ti chiedo invece solo una possibilità di stare insieme, di conoscerci nonostante tutto, nonostante noi! »
Nonostante noi.
« Ma... perché ora? Perché adesso? E EJ? Ora sai anche tu che è il mio compagno di stanza... »
« Ora sai anche tu ciò che farei soltanto per una possibilità, soltanto per stare insieme. »

© Giulio Cerruti (The_last_romantic)

Angolo dell'autore:

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