ᑕᗩᑭITOᒪO 24 |ᗰE ᑎE ᐯᗩᗪO?|

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Con che coraggio ti permetti di credere di meritare due volte lo stesso tempo a tua disposizione? Non è forse vero che lo stai sfruttando per la seconda volta?  O forse ti credi superiore a tal punto da considerare la cosa normale?! In fondo, sei sempre stata un po'  vanitosa. Quindi dimmi, ne è valsa la pena sprecare il tempo di qualcun'altra?

Era il primo sogno che facevo nella nuova realtà. Eppure sembrava più di un sogno, addirittura un confronto con il mio subconscio. Così lo avrei definito, se non fosse per l'immagine riflessa nello specchio dello stesso bagno dove mi ero tolta la vita allora. Era l'altra me che parlava, ma non con un tono di voce che conoscevo. Era totalmente diverso, come se fosse sempre stato da qualche parte dentro di me e solo ora avesse deciso di fare capolino fuori dal mio corpo. Era invadente, mi sfidava con lo sguardo e mi penetrava, quasi volesse privarmi dell'unica cosa che mi rimaneva: la speranza.

Era fine estate e lo si capiva dal sole che dubitante sorgeva all'alba quasi stufo della vita stessa, eppure era obbligato a farlo ancora per un po'. Ma che cos'è un pò per il sole? Saranno mica miliardi e miliardi di anni in più per noi? Allora perché mai avrei dovuto sentirmi una ladra di raggi solari oppure qualcuno che si cela nella realtà altrui? Del resto ero sempre io.

La mattina dell'ultimo sabato dell'estate del 2003 era troppo frizzante per i miei gusti, talmente frizzante che mi fece dubitare dei precedenti avvenimenti. Non era forse successo di risvegliarmi in mezzo ai fiori o avevo visto male nel realizzare che mio nonno acquisito stesse quasi correndo verso di me con un machete in mano? Era un sogno allora? No, io con credo. Era la pura realtà chiamata Singerei. Non per niente, la nonna mi aveva raccontato le origini del nome di quel maledetto paese.

«Singerei, dividila in due parti, poi trasforma l'ultima E in una A e la I diventerà?» Aveva chiesto lei il giorno prima, mentre eravamo a far pascolare le innumerevoli pecore del vicinato. «Sangue. Sangue cattivo.» Avevo detto traducendo la parola per filo e per segno. «Esatto bambina.» Aveva esclamato Elena con fare teatrale, quasi fosse fiera di essere associata a quel nome. La sua pelle era bruciacchiata dal sole e le dava un'aria ancora più trasandata.

«Ma nonna, questo significa che siamo tutti cattivi noi nati a Singerei?» Chiesi confusa, mentre mi stavo sporgendo alla sorgente trovata in mezzo alle colline che dissetava umani e animali, senza eccezioni.

«No bambina, è una storia lunga che forse non è nemmeno del tutto vera, ma è quello che ci hanno insegnato e tramandato. Quando ci fu la seconda guerra mondiale, i soldati trovarono rifugio qui a Singerei. Erano soldati europei e non erano ben visti dall'unione sovietica ovviamente, ma il popolo di Singerei che all'epoca si chiamava Lazovsk, nome datogli in onore del comunista Sergey Lazo, li aveva ospitati, nutriti e molti di loro si accoppiarono con quei soldati. Così siamo diventati come loro, mantenendo comunque le nostre credenze. Siamo stati soprannominati dai nostri compaesani "sangue cattivo" perché le nostre donne avevano dormito, sposato e amato i tedeschi, gli italiani e altri europei perciò siamo di sangue cattivo, o meglio di sangue misto.» Raccontò la nonna quasi scusandosi mentre si alzava da terra con la sua gobba accentuata.

«Quindi si sono impossessati di Singerei, rendendo le donne prostitute e gli uomini schiavi?» Chiesi pensierosa.

«Non ho mai riflettuto da questo punto di vista.» Disse la nonna voltandosi di scatto verso di me, come a volermi accusare del solo fatto di averlo pensato. Del resto, nessuno osava fare una cosa del genere qui da troppi anni ormai. «Ragazza, ricorda che questa è solo una storia che si racconta in paese. Come quelle che senti alla fontana dell'acqua dalle donne che dicono che le vicine si prendono le botte dai mariti perché li tradiscono.» Disse nonna distogliendo lo sguardo.

«Il che non è vero! Giusto?» Azzardai. «No, ovvio che no!» Il suo scatto verso di me fu brutale e mi afferrò per il colletto di quella camicia azzurra di tre generazioni fa. Mi spaventai, ma senza intimorirmi più del solito. «Capisco.» Era tutto ciò che uscì dalla mia bocca, mentre lo sguardo rimaneva incollato a quegli occhi azzurri come il cielo. «Tua madre ne ha viste di cose nella vita, ma tutto sommato è stata una brava bambina, ragazza e donna!» Aggiungeva man mano che si allontanava da me, rivolgendosi quasi alle pecore. Sapevo che mentiva e che si aspettava il mondo da mia madre, come faceva a sua volta lei da me. E sapevo che avevano torto entrambe.

99 TᕼIᑎGᔕ I - ᖇITOᖇᑎO ᗩᒪᒪE OᖇIGIᑎIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora