Capitolo 5: Il piano

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Capitolo scritto a quattro mani con la mia carissima amica Aurora Torrisi <3

Castello Ursino, un anno e un giorno dopo

Judittha sedeva davanti alla finestra, vestita di nero da capo a piedi. Scura in volto come scuro era il cielo all'orizzonte, minacciato da nuvole cariche di pioggia.

Ormai da un anno (e un giorno) Judittha passava le sue giornate seduta lì davanti, a fissare il panorama e la vita scorrere sotto i suoi occhi vuoti, una vita che da trecentosessantasei giorni non sentiva scorrere dentro di lei, da quando Oloferne l'aveva strappata al suo amato Manasse e, di conseguenza, a lei.

Usciva dalla sua stanza e dal castello solo una volta a settimana, per andare al cimitero a trovare il suo amato perduto, rigorosamente vestita di nero, con tanto di velo sulla testa, in perfetto stile siciliano.

Il resto delle sue giornate trascorrevano così, alla finestra.

La visione dello spazio esterno era in parte impedita dai rami di un grosso albero (una magnolia, forse?) che distendeva le sue fronde davanti all'apertura della piccola stanza in cui si era imposta di rimanere confinata.

Tra le foglie, tuttavia, aguzzando bene la vista, riusciva a scorgere il paesaggio circostante: il mare cristallino, illuminato dai timidi raggi di un sole che cercava di aprirsi un varco tra le nuvole grigie e tempestose e, più vicino a lei, banchi di sabbia dorata che declinavano dolcemente fino alla riva, in cui le onde si infrangevano violente e causa del forte vento.

Il suo sguardo era attirato con maggior forza da un luogo più vicino, il luogo che temeva di più e che, al contempo, desiderava maggiormente: il piccolo boschetto della Plaia, in cui il suo futuro sposo Oloferne si era accampato con il suo esercito.

La minaccia che incuteva era incredibile: solo sentire il suo nome faceva venire la pelle d'oca a chiunque lo udisse. Era la minaccia dalla faccia tenebrosa, dal fisico imponente e spaventoso.

Il filo che conduceva i suoi turbolenti pensieri fu interrotto dal rumore della porta della sua stanza che si apriva. Che sia già giunto il momento? pensò, chiudendo gli occhi, affranta. Un brivido le percorre la schiena. Le sue mani corrono veloci al bordo della finestra, come ad afferrare qualcosa, ma si fermano non appena i suoi occhi si posano sulla vecchia ancella che aveva appena oltrepassato l'ingresso.

«Il momento è giunto, mia signora...!» annunciò l'ancella, il volto segnato dall'età piegato in una smorfia triste.

Judittha rimase un altro secondo con gli occhi chiusi, cercando di rallentare i battiti del proprio cuore, che batteva come un canarino chiuso in una gabbia. Sospirando, li riaprì, fissandoli su un angolo della stanza, un angolo che nei giorni precedenti aveva evitato con tutta se stessa, distogliendo velocemente lo sguardo ogni qual volta, malauguratamente, i suoi occhi gli si rivolgevano. L'angolo in cui soggiornava il suo splendido quanto odiato nuovo vestito di nozze. Bianco, come da tradizione, l'abito aveva una sola manica, lunga. Lo scollo presentava una striscia dorata, da sempre colore accostato alla regalità. L'indumento era giunto una settimana prima, gentile concessione del suo regale promesso sposo, insieme a una collezione assortita di gioielli, come promemoria (come se ci fosse il rischio che Judittha si dimenticasse!) delle imminenti nozze.

Con un groppo in gola e le lacrime che minacciavano di sopraffarla, Judittha si sfilò dall'anulare sinistro la fede in oro del suo primo matrimonio, chiudendola dentro un cassetto della sua scrivania.

Viaggiando col pilota automatico, senza pensare troppo a ciò che stesse facendo per non farsi cogliere dalle emozioni, si spogliò degli abiti neri e, con l'aiuto della sua fedele ancella Aurora, indossò l'abito inviato da Oloferne, accompagnandolo con un bracciale in oro nel braccio destro (rimasto scoperto dal vestito) e abbinandogli una coppia di orecchini pendenti, anch'essi in oro splendente.

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