Capitolo 22: L'ultima tappa del viaggio

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Nella settimana che passò, i due ebbero il tempo di aggiornarsi a vicenda sui propri viaggi che li avevano portati fino a quel punto, non tralasciando nessun dettaglio... persino quelli più tristi e drammatici.

Così, nella quiete e nell'immobilità della foresta, Jona ebbe modo di rimettersi in forze e, grazie alle ottime abilità culinarie dello zio, di rimettere su qualche chilo.

Jiuseppe, d'altro canto, preoccupato per le condizioni del nipote, era inamovibile sull'evitargli qualsiasi tipo di stress, persino, alle volte, provocando la frustrazione di Jona, quello derivante dal semplice stare in piedi o camminare per la casa (dato che non sia mai potesse uscire addirittura di casa per sgranchirsi le gambe!)

Passavano i loro giorni chiacchierando, mangiando o seduti sul divano davanti al televisore, una sorta di scatola metallica in cui si muovevano persone piccolissime, intente continuamente a spararsi contro con delle pistole, a baciarsi o a raccontare barzellette.

Jiuseppe adorava la tv. Passava gran parte del suo tempo con gli occhi fissi sullo schermo, in soggiorno, a ridere o a sobbalzare (dipendeva dal tipo di programma trasmesso), osservando con occhi carichi di passione quel mondo tecnologicamente molto avanzato, pur tuttavia senza muoversi da quella prigione di legno che era diventata la sua baita negli ultimi anni.

Jona, d'altro canto, odiava rimanere con le mani in mano. In generale, ma soprattutto adesso che l'idea di un nuovo viaggio aveva preso un posto in prima fila nei suoi pensieri, il giovane veneziano non apprezzava l'inamovibilità, considerato sempre da tutti iperattivo, specialmente dai suoi insegnanti ai tempi della scuola.

Quando non ne poteva più di vedere uomini e donne vivere attraverso uno schermo, a differenza sua che era costretto a quella non vita, sedeva davanti alla finestra, osservando la foresta, sperando, inutilmente, di veder giungere, grazie ai suoi indizi lasciati sui tronchi degli alberi, la sua amata Judittha, non ancora del tutto convinto che ella fosse realmente morta, digerita dalla balena.

Al settimo giorno di inattività, di fronte all'ennesimo show che avrebbe dovuto far ridere (suo zio si stava sganasciando da mezz'ora), ma che a lui stava solo facendo dolere la mascella dal perpetuo sbadigliare, Jona perse una volta per tutte la pazienza e urlò, snervato, a Jiuseppe: «Non ce la faccio più a stare chiuso qui senza fare niente! Sto bene ormai da giorni, è inutile perdere altro tempo!»

Lo zio, che si aspettava che presto o tardi il giovane avrebbe sbottato così, a malincuore spense la tv col telecomando, sospirando.

«E va bene...» accettò, in tono rassegnato.

Aveva preparato per anni la sua vita futura, una volta che la sua visione dell'incontro nella foresta si fosse avverata. Ma, adesso che poteva finalmente cominciare a vivere, la paura lo teneva fermo, radicato come un albero nel terreno, in quell'abitazione che era stata la sua casa negli ultimi vent'anni.

Jona si illuminò a quelle parole, non aspettandosi una resa così fulminea da parte dello zio, il cuore che cominciò a martellare sul suo petto, tornando alla vita.

«Per prima cosa devi cambiarti d'abito!» gli ordinò Jiuseppe, alzandosi dal divano e guardandolo con le braccia conserte.

«Cos'hanno i miei abiti che non va?» chiese Jona, confuso, fissando con orgoglio la sua divisa da gondoliere.

«Intanto sono logori e sporchi...» spiegò Jiuseppe, scrutando un po' con sdegno quei vestiti puzzolenti. «Poi sono vecchi di mezzo millennio. Devi indossare qualcosa di più moderno...» e sparì nella sua stanza, in cerca di abiti all'ultima moda per il nipote.

Dopo diversi minuti, tornò con in mano un paio di jeans e una maglietta dell'Hard Rock Café, molto in voga tra i giovani dell'epoca.

Jona tastò perplesso il tessuto dei jeans, più confuso che persuaso. Titubante, li indossò, poggiando i suoi vecchi pantaloni neri su una sedia, delicatamente, quasi con timore reverenziale, con la paura di sgualcirli.

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