Capitolo 12: Nuove avventure

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Capitolo scritto a quattro mani con la mia amica Aurora Torrisi <3

Comprensibilmente giù di corda, dopo la perdita del figlio neonato, non se la sentirono di rimettersi subito in viaggio, avevano bisogno di alcuni giorni per annegare nel proprio dolore. In realtà non avevano voglia di fare niente. Fosse dipeso da loro, avrebbero passato il loro tempo a letto, a piangere, senza alzarsi nemmeno per bere o mangiare, fino a quando la Morte non fosse giunta anche per loro. Perché questo pensavano entrambi di meritare: la Morte. Nulla di meno spettava a chi aveva lasciato morire il proprio bambino appena nato. Fosse dipeso da Judittha, avrebbe volentieri atteso il sopraggiungere della fine in quella camera della locanda. Non faceva altro che incolparsi per la morte di Julian. Era compito suo prendersi cura di lui. Si sarebbe lasciata morire, pur di avere la possibilità di riabbracciarlo. Ma Jona, che soffriva come lei, non glielo permetteva. La spronava a mangiare, almeno un poco (quanto bastava per non morire di fame) e a bere. Si faceva forza per entrambi, il giovane veneziano. Usciva dalla loro stanza quel tanto che bastava per comprare del cibo giù alla taverna, senza trattenersi un solo secondo in più, con la paura di lasciare da sola la compagna amata.

Era da poco passata l'alba del quarto giorno nella Locanda del viaggiatore. Jona e Judittha dormivano sonni agitati, dopo essere finalmente riusciti ad addormentarsi solo dopo aver finito le lacrime. Entrambi dormivano su un fianco, lontani, dandosi a vicenda le spalle, non riuscendo a trovare neanche l'uno nell'altro un po' di conforto. Un suono destò all'improvviso Judittha, quella col sonno più leggero dei due. Aprì di scatto gli occhi, ma non volle illudersi, pensò di aver immaginato tutto o di aver sentito quel suono in sogno. Ma poi lo sentì di nuovo e, stavolta, ebbe la conferma che si trattava proprio di quello che pensava: il pianto di un neonato. Col cuore palpitante, si mise seduta nel letto, cercando di attirare l'attenzione (e la veglia) del compagno.

«Jona! Hai sentito?» gli chiese, scuotendolo per una spalla.

Ma il gondoliere continuò a russare imperterrito.

Senza lasciarsi demoralizzare, Judittha si alzò dal letto, a piedi nudi sul pavimento in legno della locanda. Aprì piano la porta della loro stanza, cercando di non far rumore per non destare Jona e si inoltrò nel corridoio del primo piano della locanda. Il bambino continuava a piangere, probabilmente aveva fame e cercava il seno della madre. Judittha seguì il suono del suo vagito per riuscire a trovarlo. Le urla la condussero in una stanza in fondo al corridoio. Aprì lentamente la porta, che scricchiolò con un suono inquietante da film dell'orrore. La stanza era praticamente vuota. L'unico arredo all'interno era una culla a baldacchino, con le tende azzurre dai bordi bianchi. Al suo interno, un neonato piangeva, disperato, vestito anche lui di azzurro e bianco. Era Julian.

Il cuore di Judittha fece come un balzo, battendo all'impazzata.

Era proprio lui, impossibile sbagliarsi! Judittha avrebbe riconosciuto tra milioni di occhi i suoi occhi azzurri e quel nasino tanto simile a quello di Jona. La fanciulla sorrise per la prima volta dopo tre giorni infernali, piangendo lacrime di gioia e ringraziando Dio per averle restituito suo figlio.

«Oh, mio Dio, sei vivo!» esclamò, tremante.

Impaziente ed emozionata, afferrò il bambino dalla culla e se lo portò in braccio, cullandolo e abbracciandolo al contempo.

«Mi sei mancato così tanto!» gli sussurrò. Una volta tra le braccia della madre, il bambino cessò di piangere all'istante. Tuttavia cominciò a produrre un rumore strano, come un mormorio o un gorgoglio. A un tratto, la giovane siciliana sentì la spalla bagnata, gelida. Sul momento pensò che Julian le avesse ciucciato la maglietta, come spesso capitava con i bambini o che, al massimo, avesse ingurgitato un po' di succhi gastrici. Ma il rumore continuava, così allontanò il bebè dalla sua spalla, per poterlo osservare meglio. Rimase scioccata da ciò che vide. Il bambino tra le sue mani, il suo piccolo Julian, era completamente cianotico, cadaverico, le vene del viso in risalto sotto il chiarore della pelle. Non sputava succhi gastrici. Sputava acqua. Acqua salata. Quella del Canale di Suez. La stessa acqua che lo aveva annegato.

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