Capitolo 29 - Il Conte di Continuo

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Da più parti il tendone fu squarciato, ed entrarono con foga numerosi militi dall'armatura vermiglia, brandendo aste con tridenti su entrambi i lati. Tutti nella sala gridarono spaventati, ma quasi nessuno osò fuggire, dacché eravamo stati circondati. Dall'ingresso alla nostra destra entrò un Predicante con l'abito rosso, strascicando le gambe deformi, col volto lebbroso e pustoloso, cieco da un occhio; dietro di lui veniva un uomo alto, privo del braccio sinistro, dalla lunga barba corvina, anch'egli con l'armatura rossa, e l'elmo coperto di corni.

«Il Conte di Continuo!» esclamò Cil, mentre eravamo schiacciati nella ressa e trattenevamo il fiato.

«Gettate le armi e dichiarate la vostra resa dinnanzi a Ser Antibalo delle Giarde, Conte di Continuo» comandò il Predicante, che aveva nome Quer d'Appone, e molto spargeva il suo veleno per il mondo.

Le guardie del Re Ripescatore, ch'erano al massimo una dozzina, impugnavano delle misere spade di legno, ed erano incerte se obbedire o meno.

«Indicami l'oggetto» ordinò con voce cavernosa il Conte a Quer d'Appone.

Allora, con nostra immane meraviglia, il Predicante estrasse un piccolo congegno, che pareva alla vista in tutto identico al nostro Puntafatti, e pure la sua freccia indicò il Sangradale.

«È quel vaso, Vostra Grazia» gli rispose in un sibilo il curvo araldo.

«Impossibile!» esclamò Cil, «Impossibile! Hanno un altro Puntafatti!»

La sua voce purtroppo fu udita dallo storpio Predicante, il quale volse il capo con un repentino scatto di lucertola, e venne verso di noi, scostando quelli che ci stavano davanti, impauriti. Giunto al nostro cospetto, egli ci riconobbe.

«Pare che gli Dei abbiano deciso di parteggiare per noi, Vostra Grazia,» disse, «poiché hanno inviato qui, in questo giorno benedetto, gli sporchi servi dell'Arte degli Alchimisti, coloro che hanno complottato con Ornego per i loro biechi scopi!»

A queste parole, pure il Conte si volse e ci raggiunse. Visto da vicino, egli era più alto di Bastonazz, e più muscoloso: la sua testa pareva quella di un toro, e il simbolo degli Dei, riportato sulla sua corazza come su quella dei suoi soldati, era, sopra al suo petto, esageratamente largo.

«Così Ornego ha inviato questi miseri plebei! Forse voleva farsi beffe di me!» ci derise il Conte, mentre la saliva gli correva sulla barba.

Messer Penemozzo, che ci era di fianco, comprendeva solo in parte ciò che stava accadendo; gli altri entro il tendone ne erano all'oscuro, e temevano soltanto per la propria incolumità.

«Dal momento che state per morire, quale occasione migliore per illustrarvi le profonde motivazioni che mi spingono?» ci chiese il Conte, «Il mio fidato araldo mi ha riferito del vostro arrivo nelle mie terre, degli oggetti che portavate, della vostra alleanza con Oraffermo Ornego, il mio vassallo degenere. Allora mi sono recato da lui, ed egli ha finto dapprima di non sapere. Ma poi, quando l'ho appeso a testa ingiù alla ruota, e gli ho strappato una ad una le dita dei piedi, si è convinto a parlare. Mi ha detto di questi oggetti divini e della vostra ricerca, e l'ho costretto a costruire un congegno uguale per me. Ora egli giace sepolto nella fredda terra, la sua torre abbattuta; voi invece siete qui, in trappola, ai miei piedi: è finita. Sarò io a liberare il Dio rinchiuso, ed egli mi fornirà finalmente la cura per il mio figliolo malato!»

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