capitolo 1
LA FRECCIA DI VALENTINE
«Sei ancora arrabbiato?» Alec, appoggiato alla parete dell'ascensore, lanciò uno sguardo truce a Jace attraverso lo spazio angusto. «Non sono arrabbiato.»
«Oh, sì che lo sei, invece.» Jace fece un gesto accusatorio al fratellastro e gridò, il braccio percorso da una fitta. Ogni parte del suo corpo era dolorante, dopo la botta che aveva preso quel pomeriggio per un volo di tre piani concluso sfondando del legno marcio e atterrando su un mucchio di ferraglia. Gli facevano male perfino le falangi delle dita contuse. Alec, che solo di recente aveva abbandonato le stampelle che aveva dovuto usare dopo uno scontro con Abbadon, non sembrava molto più in forma di Jace. Aveva gli abiti infangati e i capelli che ricadevano in ciocche unte, lisce e intrise di sudore. Un lungo taglio gli deturpava una guancia. «Non è vero» disse attraverso i denti.
«Solo perché avevi detto che i demoni draghi erano estinti...» «Io avevo detto perlopiù estinti.》 Alec gli puntò un dito contro. «Perlopiù estinti» ripeté con voce tremante di rabbia «significa NON ABBASTANZA ESTINTI.» «Capisco» disse Jace. «Vuol dire che farò cambiare la voce nel manuale di demonologia da "quasi estinti" a "non abbastanza estinti per Alec perché lui i mostri li preferisce davvero estinti". Questo ti farà felice?» «Ragazzi, ragazzi» disse Isabelle, che era stata occupata a esaminarsi il viso nella parete a specchio dell'ascensore. «Non litigate.» Distolse lo sguardo dallo specchio con un sorriso allegro. «D'accordo, c'è stata un po' più azione di quanto ci aspettassimo, ma io l'ho trovata uno sballo.» Alec la guardò e scosse la testa. «Ma come fai a non sporcarti
mai di fango?» La sorella scrollò le spalle con filo sofia. «Ho il cuore puro. Respinge la sporcizia.» Jace sbuffò talmente forte che Isabelle lo guardò irritata. Jace le agitò contro le dita incrostate di fango. Al posto delle unghie aveva delle mezzelune nere. «Sporco dentro e fuori.» Isabelle stava per replicare, quando
l'ascensore si fermò con uno stridio di freni. «Sarebbe ora di riparare questo affare» disse aprendo con violenza la porta. Jace la seguì nell'ingresso, impaziente di togliersi armi e armatura e di farsi una doccia calda. Aveva convinto i fratellastri ad accompagnarlo a caccia, sebbene nessuno dei due fosse
del tutto a proprio agio a uscire in quel modo, dato che ora che non c'era più Hodge a dare istruzioni. Ma Jace
aveva cercato l'oblio attraverso il combattimento, lo spietato diversivo dell'uccidere e la distrazione del ferire. E gli altri due, avendolo capito, avevano accolto la proposta e si erano trascinati con lui nei tunnel sporchi e deserti della metropolitana, finché avevano trovato il demone drago e lo avevano ammazzato. Avevano agito tutti insieme, in perfetta armonia, come sempre. Come una famiglia. Jace abbassò la cerniera e si tolse la giacca, lanciandola su uno dei ganci fissati al muro. Alec, che gli sedeva accanto sulla panca di legno, si liberò scalciando degli stivali incrostati dimelma. Canticchiava sottovoce, stonando, per far capire a Jace che non era poi così seccato. Isabelle si sfilava le forcine e lasciava ricadere i suoi lunghi capelli neri. «Ho una fame!» disse. «Vorrei che la mamma fosse qui per cucinarci qualcosa.» «Meglio di no» osservò Jace sfibbiandosi la cintura delle armi. «Starebbe già strepitando per il fango sui tappeti.» «Proprio così» disse una voce gelida, e Jace, le mani ancora sulla cintura, si girò di scatto. Maryse Lightwood era in piedi sulla soglia, a braccia conserte. Indossava un rigido vestito da viaggio nero, e aveva i capelli, neri come quelli di Isabelle, raccolti in una spessa treccia che le penzolava a metà della schiena. I suoi occhi, di un azzurro glaciale, scivolarono sui tre come un riflettore antiaereo... «Mamma!» Isabelle, riacquistando il controllo di sé, corse ad abbracciarla. Alec si alzò e le raggiunse, cercando di nascondere che zoppicava ancora. Jace rimase dov'era. Quando gli occhi di Maryse l'avevano sfiorato, aveva notato qualcosa che l'aveva inchiodato sul posto. Eppure non aveva detto niente di così tremendo, no? Scherzavano in continuazione sulla sua ossessione per i tappeti antichi... «Dov'è papà?» chiese Isabelle, staccandosi dalla madre. «E Max?» Maryse ebbe un'esitazione quasi impercettibile, poi disse: «Max è nella sua stanza. Quanto a tuo padre, purtroppo è ancora ad Alicante. C'erano alcuni affari che richiedevano la sua presenza.» Alec, generalmente più sensibile della sorella agli umori altrui, era esitante. «C'è qualche problema?》 «Potrei rivolgere la stessa domanda a te.» Il tono di sua madre era freddo. «Sbaglio, o zoppichi?» «Io...» A mentire Alec era una frana. Isabelle rispose al posto suo, in tono conciliante:
«Abbiamo avuto una zuffa con un demone drago ne
i tunnel della metro. Niente di che.» «E immagino che neanche il Demone Superiore contro cui avete combattuto la scorsa settimana fosse niente di che, vero?» Questo zittì perfino Isabelle. Lanciò un'occhiata a Jace, che ne avrebbe fatto volentieri a meno. «Non era programmato.» Jace faceva fatica a concentrarsi. Maryse non lo aveva ancora salutato, non lo aveva degnato neppure di un ciao, e continuava a guardarlo con occhi che sembravano due pugnali azzurri. Jace sentiva un vuoto alla bocca dello stomaco che cominciava a diffondersi. Maryse non lo aveva mai guardato così, qualsiasi cosa avesse combinato. «È
stato un errore...» «Jace!» Max, il più piccolo dei fratelli Lightwood, si infilò tra Maryse e lo stipite della porta e si precipitò nella stanza, schivando la mano della madre protesa verso di lui. «Sei tornato! Siete tornati tutti!» Si mise a girare in tondo, sorridendo ad Alec e a Isabelle con aria trionfante. «Mi pareva di aver sentito l'ascensore!» «E a me pareva di aver
ti detto di restare nella tua stanza» disse Maryse.
«Non me lo ricordo» replicò il bambino con una serietà che fece sorridere perfino Alec. Max era piccolo per la sua età, circa sette anni, ma aveva una placida gravità che, unita agli ovchiali troppo grandi, gli conferiva
un'aria più adulta. Alec allungò la mano e gli arruffò i capelli, ma il fratello continuava a guardare Jace con gli occhi che brillavano. Jace sentì il freddo pugno serrato nello stomaco allentarsi un poco. Max lo aveva sempre venerato come un eroe, ben più di quanto venerasse il fratello maggiore, probabilmente perché Jace accettava molto di più la sua presenza. «Ho sentito che avete combattuto contro un Demone Superiore» disse. «Era bestiale?» «Era... diverso» rispose evasivamente Jace. «E Alicante com'era?»
«Bestiale. Abbiamo visto delle cose fichissime. C'è un'armeria immensa. E poi mi hanno portato in alcuni de
i posti dove fabbricano le armi. Mi hanno anche fatto vedere un nuovo modo di fare le spade angeliche in modo che durino di più. E poi voglio provare a convincere Hodge a spiegarmi...» Jace non poté trattenersi: i suoi occhi guizzarono immediatamente verso Maryse con espressione incredula. Dunque Max non sapeva di Hodge? Non glielo aveva ancora detto?
Maryse notò il suo sguardo e le sue labbra si fecero so
ttili come lame di coltello. «Basta, Max.» Prese il figl
io più piccolo per il braccio. Il bambino allungò la testa e alzò su di lei uno sguardo pieno di stupore.
«Ma sto parlando con Jace...»
«Lo vedo.» Maryse lo spinse delicatamente verso Isabelle. «Alec, Isabelle, portate vostro fratello nella
sua stanza. Jace» quando pronunciò quel nome la sua voce lasciò trasparire una certa tensione, come se un acido invisibile le prosciugasse le sillabe in bocca «datti una pulita e raggiungimi in biblioteca appena puoi.»
«Non capisco» disse Alec spostando lo sguardo da sua madre a Jace e viceversa. «Che succede?» Jace sentì il sudore freddo cominciare a colargli lungo la schiena. «C'entra mio padre?» Maryse sussultò due volte, come se le parole "mio padre" fossero state due schiaffi distinti. «In biblioteca» disse attraverso i denti serrati. «Discuteremo la faccenda là.» Alec intervenne: «Quelloche è successo mentre eravate via non è colpa di Jace. C'eravamo dentro tutti. E Hodge ha detto...»
«Anche di Hodge discuteremo più tardi.» Gli occhi di Maryse erano fissi su Max, il tono severo.
«Ma... mamma» protestò Isabelle. «Se hai intenzione di
punire Jace, devi punire anche noi. È una questione di giustizia. Abbiamo fatto tutti esattamente le stesse cose.»
«No» fece Maryse dopo un silenzio protratto così a lungo che Jace pensava che non avrebbe aggiunto nulla. «Non è vero.»
«Regola numero uno dei cartoni animati giapponesi» disse Simon. Era seduto con la schiena appoggiata a un mucchio di cuscini ai piedi del suo letto, un sacchetto di patatine in una mano e il telecomando nell'altra. Portava una maglietta nera con la scritta I BLOGGED
YOUR MOM e un paio di jeans con un buco su un ginocchio.
«Mai avere a che fare con un monaco cieco.»
«Lo so» disse Clary prendendo una patatina e intingendola nella ciotola della salsa sul tavolino pieghevole tra loro. «Per qualche ragione sono
combattenti molto più abili dei monaci che ci vedono.» Diede un'occhiata allo schermo. «Cosa fanno quei tipi, ballano?»
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