Capitolo 1 (3^parte)

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Era una delle poche persne al mondo capace di farla ridere. «Più o meno da quanto lo sai tu.» Maryse scosse lentamente la testa. «Non ci credo.» Jace si raddrizzò sulla poltrona. Le mani appoggiate ai braccioli erano
chiuse a pugno. Si accorse di un lieve tremito alle di
ta e si chiese se l'avesse mai avuto prima. Pensava di no. Le sue mani erano sempre state salde come il suo cuore. «Non mi credi?» Sentì lo scetticismo nella propria voce e internamente sussultò. Certo che non gli credeva. Era chiaro dal momento stesso in cui era arrivata a casa. «Non ha senso, Jace. Come potevi non sapere chi è tuo padre?»
«Lui mi disse che era Michael Wayland. Vivevamo nella casa di campagna degli Wayland...»
«Bella pensata» disse Maryse. «E il tuo nome? Qual è il tuo vero nome?»
«Lo sai, il mio vero nome.»
«Jonathan Christopher. Sapevo che era il nome del figlio di Valentine. E sapevo che anche Michael aveva un figlio che si chiamava Jonathan. È un nome abbastanza comune tra i Cacciatori... Non ho mai trovato strano che l'avessero entrambi. Quanto al secondo nome del figlio di Michael, non ho mai indagato. Ma adesso non posso fare a meno di pormi delle domande. Qual era il secondo nome del figlio di
Michael Wayland? Da quanto tempo Valentine aveva in mente il piano che avrebbe messo in atto? Da quanto
tempo sapeva che avrebbe ucciso Jonathan Wayland?» Si interruppe, gli occhi fissi su Jace. «Sai, tu non hai mai assomigliato a Michael» disse. «Ma a volte i bambini non assomigliano ai genitori. Non ci avevo mai pensato prima, ma adesso in te vedo Valentine. Il modo che hai di guardarmi. Quell'aria di sfida. Non ti im
porta quello che dico, vero?» Invece gliene importava eccome, pensò Jace. Ma fecein modo che lei non se ne accorgesse. «In caso contrario, farebbe differenza?»
Maryse posò il bicchiere sul tavolo lì accanto. Era vuoto. «E rispondi alle domande con altre domande per spiazzarmi, proprio come fa Valentine. Forse avrei dovuto accorgermene.» «Forse un corno! Sono ancora la stessa identica persona che ero negli scorsi sette anni. In me non è cambiato niente. Se non ti ricordavo Valentine prima, non vedo perché dovrei ricordartelo adesso.» Gli occhi di Maryse si posarono su di lui per allontanarsene subito dopo, quasi non sopportasse di guardarlo dritto in faccia. «Sono sicura che quando parlavamo di Michael tu non potevipensare che parlassimo di tuo padre. Le cose che dicevamo di lui non avrebbero mai potuto riguardare Valentine.»
«Dicevate che era una brava persona.» La rabbia gli ribolliva dentro.
«Un Cacciatore coraggioso. Un padre affettuoso. Mi pareva che corrispondesse abbastanza alla realtà.»
«E le fotografie? Devi pur aver visto delle foto di Michael Wayland ed esserti reso conto che non era l'uomo che chiamavi papà.» Maryse si morse il labbro. «Aiutami a capire, Jace.»
«Tutte le foto andarono distrutte durante la Rivolta. È quello che voi mi avete raccontato. Ora mi domando se non fu Valentine a farle bruciare, affinché nessuno sapesse chi faceva parte del Circolo. Non ho mai posseduto una foto di mio padre» disse Jace, mentre si chiedeva quanto l'amarezza che provava apparisse all'esterno. Maryse si portò una mano alla tempia e la massaggiò come se avesse mal di testa. «Non posso crederci» disse come parlando tra sé. «È folle.»
«E allora non crederci. Credi a me» disse Jace sentendo aumentare il tremito alle dita. Maryse lasciò ricadere la mano. «Pensi che non lovoglia?» chiese. Per
un attimo Jace sentì nella sua voce un'eco della Maryse che, quando lui aveva dieci anni e di notte fissava il
soffitto a occhi asciutti pensando a suo padre, entrava nella sua stanza, si sedeva accanto al letto e gli faceva copagnia finché, appena prima dell'alba, non si addormentava. «Non lo sapevo» ripeté Jace. «E quando
mi ha chiesto di tornare con lui a Idris ho detto di no. Sono ancora qui. Questo non significa niente?» Maryse si girò a guardare la caraffa di vetro come se pensasse di versarsi dell'altro vino, poi sembrò scartare quell'idea. «Lo vorrei» disse. «Ma ci sono parecchie ragioni per cui tuo padre potrebbe desiderare che tu rimanga all'Istituto... Quando c'è di mezzo Valentine, non posso fidarmi di nessuno che ne abbia subito l'influenza.»
«Anche tu l'hai subita» disse Jace, e se ne pentì subito dopo, vedendo l'espressione che le balenò sul volto.
«Io l'ho rinnegato» replicò Maryse. «E tu? Ne saresti
capace?» I suoi occhi azzurri avevano lo stesso colore
di quelli di Alec, ma Alec non lo aveva mai guardato così. «Dimmi che lo odi, Jace. Dimmi che odi quell'uomo e tutto ciò che rappresenta.» Passò un momento, poi un
altro, e Jace, lo sguardo verso terra, si accorse di avere serrato le mani così spasmodicamente che le nocche erano bianche e dure come una lisca di pesce. «Non posso.» Maryse trattenne il respiro. «Perché no?»
«Perché non puoi fidarti di me? Ho vissuto con te quasi metà della mia vita. Mi conosci bene, no?»
«Sembri così sincero, Jonathan. Lo sei sempre sembrato, anche quando da bambino scaricavi la colpa di qualche tua birichinata su Isabelle o Alec. In vita mia ho incontrato una sola persona capace di sembrare sincera quanto te.» Jace sentì un sapore di rame in bocca. «Intendi mio padre.»
«C'erano solo due tipi di individui al mondo, per Valentine» disse Maryse. «Quelli che stavano con il Circolo e quelli che gli stavano contro. Questi ultimi erano i nemici, mentre i primi erano armi nel suo arsenale. L'ho visto cercare di trasformare ognuno dei suoi amici, perfino sua moglie, in un'arma utile alla causa... E tu vuoi farmi credere che non ha fatto lo stesso con suo figlio?» Scrollò la testa. «Lo conosco troppo bene per crederlo.» Per la prima volta la donna lo guardò più con tristezza che con rabbia. «Tu sei una freccia scoccata dritta nel cuore del Conclave, Jace. Sei la freccia di Valentine. Che tu lo sappia o meno.»

Clary chiuse la porta della stanza sulla TV col volume a palla e andò a cercare Simon. Lo trovò in cucina, chino sul lavello con l'acqua che scorreva. Aveva le mani strette sul piano di scolo.
«Simon?» La cucina era dipinta di un giallo vivace, allegro, le pareti istoriate di disegni a gessetto e a matita fatti da Simon e Rebecca quando erano alle elementari. Rebecca aveva un certo talento artistico, era chiaro, mentre le figure disegnate da Simon sembravano tanti parchimetri con qualche ciuffo di capelli. Simon non alzò lo sguardo, ma, dall'irrigidirsi dei muscoli delle sue spalle, Clary capì che l'aveva sentita. Si avvicinò al lavello e gli appoggiò delicatamente una mano sulla schiena. Sentì i duri rilievi della spina dorsale attraverso la maglietta leggera e si chiese se fosse dimagrito. A guardarlo non avrebbe saputo dirlo, ma guarxare Simon era come guardare in uno specchio... quando si vede qualcuno tutti i santi giorni, non sempre si notano i piccoli cambiamenti del suo aspetto esteriore. «Tutto okay?»
Simon chiuse l'acqua con un brusco movimento del polso. «Certo. Sto bene.» Clary gli prese il mento tra due dita e gli girò il viso verso di sé. Nonostante l'aria fresca che entrava dalla finestra della cucina, Simon sudava capelli castani erano appiccicati alla fronte. «Non hai una buona cera. È stato il film?» Nessuna risposta.
«Mi dispiace. Non avrei dovuto ridere, è solo...»
«Non ti ricordi?» La voce del ragazzo risuonò roca.
«Io...» Clary si interruppe. A ripensarci, quella notte sembrava un'interminabile nebbia di fughe,sangue e sudore, di ombre balenate nei vani delle porte, di cadute nel vuoto. Rammentò le facce bianche dei vampiri come ritagli di carta contro l'oscurità, e rammentò Jace che la teneva, gridandole con voce roca nell'orecchio. «Non bene. È tutto confuso.»
Lo sguardo di Simon guizzò oltre lei e tornò indietro. «Ti sembro diverso?» le chiese. Clary alzò gli occhi su quelli di lui. Erano del colore del caffè nero... non proprio neri, ma di un marrone intenso con un tocco di gigio o nocciola. Simon sembrava diverso? Forse il modo in cui si comportava, dal giorno in cui aveva ucciso Abbadon,il Demone Superiore, rivelava un po' più di
sicurezza in se stesso; ma in lui c'era anche una certa cautela, come se tenesse gli occhi aperti in attesa di qualcosa. Clary aveva notato lo stesso atteggiamento anche in Jace. Forse era solo la consapevolezza di essere mortali. «Sei sempre Simon.» Il ragazzo socchiuse gli occhi come sollevato e, quando abbassò le ciglia, Clary vide quanto era spigoloso il suo zigomo. Era
davvero dimagrito, pensò, e stava per dirlo, quando lui si chinò e la baciò. Fu così sorpresa nel sentire la sua bo
cca sulla propria che si irrigidì e afferrò il bordo del piano di scolo per reggersi. Ma non lo respinse, e Simon,
sentendosi incoraggiato, le fece scivolare le mani dietro la testa e la baciò ancora più a fondo, aprendole le labbra con le proprie. Aveva la bocca morbida, più di quella di Jace, e la mano che le cingeva il collo era calda e gentile. Sapeva di sale. Clary lasciò che gli occhi le si chiudessero e per un istante fluttuò nell'oscurità e nel calore, il tocco delle dita di lui tra i capelli. Quando lo squillo del telefono penetrò stridulo nel suo stordimento, lei fece un salto all'indietro come se Simon l'avesse spinta via, anche se non si era mosso. Si fissarono per un istante in preda alla confusione più totale, come due persone che di punto in bianco si ritrovino trasportate in uno strano paesaggio che non ha nulla di familiare. Simon fu il primo a distogliere lo
sguardo, allungandola mano verso l'apparecchio appeso allaparete accanto al portaspezie. «Pronto?» A sen-
tirlo sembrava normale, ma il suo petto si alzava e si abbassava velocemente. Le porse la cornetta. «È per te.» Clary prese il telefono. Sentiva ancora il cuore martellarle in gola, come il frullare delle ali di un insetto intrappolato sotto la sua pelle. È Luke che
chiama dall'ospedale. È successo qualcosa a mia madre.
Deglutì. «Luke? Sei tu?»
«No. Sono Isabelle.»
«Isabelle?» Clary alzò lo sguardo e vide Simon che la osservava, chino sul lavello. Il rossore sulle sue guance
era svanito. «Perché mi... voglio dire, che è successo?»
La voce dell'altra ragazza ebbe un inciampo, come se stesse piangendo.
«Jace è lì?» A quelle parole Clary allontanò la corn
etta per fissarla, poi se la riportò all'orecchio. «Jace? No. Perché dovrebbe essere qui?» Per tutta risposta Isabelle emise usospiro che echeggiò all'altro capo
del telefono come un rantolo. «Il fatto è che... è
spanto.»

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