capitolo 15
IL MORSO DEL SERPENTE
«Luke» cominciò Clary nell'istante in cui la porta si richiuse dietro i Lightwood. «Cosa faremo... ?» Luke si premeva le mani ai lati della testa, come per impedirle di spaccarsi a metà. «Caffè» dichiarò. «Devo bere un caffè.»
«Ma te l'ho già portato.» Luke lasciò ricadere le mani e sospirò. «Devo berne ancora.» Clary lo seguì in cucina, dove Luke si versò dell'altro caffè, quindi si sedette al tavolo e si passò le mani tra i capelli. «Va male» disse. «Molto male.»
«Credi?» Clary non riusciva a immaginare di bere del caffè in quel momento. Aveva già i nervi tesi come corde di violino. «Che cosa succederà se lo portano a Idris?»
«Ci sarà un processo davanti al Conclave. Probabilmente lo giudicheranno colpevole. E verrà punito. È giovane, perciò può darsi che si limiteranno a privarlo dei marchi, senza maledirlo.»
«Che vuol dire?» Luke non incrociò il suo sguardo.
«Significa che se gli toglieranno i marchi, lo destituiranno da Cacciatore e lo cacceranno dal Conclave. Diventerà un mondano.»
«Ma in questo modo lo uccideranno. Davvero. Preferirà morire.»
«Pensi che non lo sappia?» Luke aveva finito il suo caffè e fissò cupo la tazza prima di metterla giù. «Ma questo, per il Conclave, non farà alcuna differenza. Non potendo mettere le mani su Valentine, puniranno
il figlio al suo posto.»
«E io? Sono sua figlia.»
«Ma non appartieni al loro mondo. Jace sì. Comunque, ti suggerisco di startene nascosta anche tu per un po'. Mi piacerebbe poter andare alla fattoria...»
«Non possiamo lasciare Jace nelle loro mani!» Clary era sgomenta. «Io non vado da nessuna parte.»
«Certo che no.» Luke liquidò la sua protesta con un gesto. «Ho detto che mi piacerebbe, non che voglio farlo. E poi, si capisce, c'è il problema di che cosa farà Imogen adesso che sa dov'è Valentine. Potremmo ritrovarci nel bel mezzo di una guerra.»
«Non mi importa se vuole uccidere Valentine. Si accomodi pure. Voglio solo riavere Jace.»
«Potrebbe non essere così facile» disse Luke «considerato che in questo caso ha fatto davvero ciò di cui è accusato.» Clary era indignata. «Cosa? Credi che abbia ucciso i Fratelli Silenti? Credi...»
«No. Non credo che abbia ucciso i Fratelli Silenti. Credo che abbia fatto esattamente ciò che Imogen gli ha visto fare: è andato da suo padre.»
Rammentando qualcosa, Clary chiese: «Cosa intendevi
quando hai detto che siamo stati noi a tradirlo e non viceversa? Vuoi dire che non gliene fai una colpa?»
«Sì e no.» Luke aveva un'aria strana. «È stata una stupidaggine. Non bisogna fidarsi di Valentine. Ma dopo che i Lightwood gli hanno voltato le spalle, cosa si aspettavano che facesse? È ancora un ragazzo, ha ancora bisogno dei genitori. Se loro non lo vorranno, andrà a cercare qualcun altro.»
«Pensavo che magari...» disse Clary «si sarebbe rivolto a te.» Luke parve indicibilmente triste. «Lo pensavo anch'io, Clary. Lo pensavo anch'io.» Maia sentiva i deboli suoni delle voci provenienti dalla cucina. Avevano
smesso di gridare in salotto. Era il momento di andarsene. Ripiegò il biglietto che aveva scarabocchiato in fretta, lo lasciò sul letto di Luke e attraversò la stanza diretta alla finestra che aveva precedentemente forzato. Vi si riversava l'aria fredda di quelle prime giornate d'autunno in cui il cielo è incredibilmente azzurro e lontano. L'aria era leggermente impregnata dell'odore di fumo. Corse al davanzale e guardò giù. Prima della Trasformazione, quello per lei sarebbe stato un salto preoccupante, ma adesso, pronta a saltare, ci pensò appena un istante, per via della spalla ferita. Atterrò accovacciata sul
cemento crepato del giardino, sul retro della casa di Luke. Raddrizzandosi, si voltò a guardare, ma nessuno aprì un La porta né le gridò di tornare indietro.
Soffocò un'incontrollabile fitta di delusione. Del resto, quando era dentro la casa, non le avevano rivolto molte attenzioni, pensò arrampicandosi sulla recinzione di filo
metallico che separava il giardino dal vicolo, dunque perché avrebbero dovuto accorgersi che se ne stava andando? Lei era chiaramente di troppo. Lo era sempre stata. L'unico tra loro che l'aveva trattata come se contasse qualcosa era Simon. Il pensiero di Simon la fece trasalire,mentre saltava oltre la recinzione e trotterellava lungo il vicolo verso Kent Avenue. Aveva detto a Clary di non ricordare la notte precedente, ma non era vero. Ricordava l'espressione di Simon quando si era ritratta da lui... Come se l'avesse impressa sotto le palpebre. La cosa più strana era che in quel momento le era sembrato ancora umano, più umano di quasi tutti quelli che aveva conosciuto.
Attraversò la strada per non passare di nuovo davanti alla casa di Luke. La strada era quasi deserta, gli abitanti di Brooklyn dormivano fino a tardi, la domenica mattina. Si avviò verso la fermata della metropolitana di Bedford Avenue continuando a pensare a Simon. Aveva un vuoto alla bocca dello stomaco che le doleva, quando pensava a lui. Era la prima persona di cui si era decisa a fidarsi da anni e poi le aveva reso impossibile farlo. Ma se fidarsi di lui è impossibile, perché ora stai andando a trovarlo? risuonò il sussurro nei recessi della sua mente, che le
parlava sempre con la voce di Daniel. Zitto, gli disse in tono deciso. Anche se non possiamo essere amici, gli devo almeno delle scuse.Qualcuno rise. Il suono rimbalzò sull'alto muro della fabbrica alla sua sinistra. Maia ruotò su se stessa, il cuore stretto per la paura, ma la strada alle sue spalle era deserta. Sul lungofiume c'era una vecchia coi suoi cani, ma Maia dubitava che fosse a portata di voce. In ogni caso, accelerò il passo. Poteva camminare, e a maggior ragione correre più svelta di buona parte degli umani. Anche nelle sue condizioni attuali, con il braccio che le doleva come se le avessero colpito la spalla con una mazza, non aveva nulla da temere da un rapinatore o da uno stupratore. Una notte poco dopo il suo arrivo in città due adolescenti armati di coltello avevano provato a violentarla mentre attraversava Central Park, e solo Bat le aveva impedito di ucciderli entrambi. E allora perché era in preda al panico?Si guardò alle spalle. La vecchia non c'era più; Kent Avenue era vuota. Davanti a lei si levava il vecchio zuccherificio abbandonato Domino. Afferrata da un improvviso impulso ad allontanarsi dalla strada, si infilò in un vicolo laterale. Si ritrovò in uno spazio angusto tra due edifici, pieno di immondizia, bottiglie gettate via, topi che correvano qua e là. I tetti sopra di lei quasi si toccavano, impedendo al sole di penetrare e dandole l'impressione di essersi cacciata in un tunnel. Nei muri di mattoni erano incastrate finestre piccole e sporche, molte delle quali rotte da vandali. Attraverso di esse, Maia vide il pavimento della fabbrica abbandonata e file su file di forni, bollitori e tini metallici. L'aria odorava di zucchero bruciato. Si appoggiò a un muro cercando di placare il martellare del cuore. Era quasi riuscita a calmarsi, quando una voce assurdamente familiare le parlò dall'ombra: «Maia?» Girò su se stessa. Lui era all'entrata del vicolo, i capelli in controluce formavano un alone luminoso intorno al suo bel viso. Gli occhi scuri orlati di lunghe ciglia la guardavano curiosi. Indossava
dei jeans e, nonostante l'aria gelida, una maglietta a maniche corte. Sembrava che avesse ancora quindici anni.«Daniel» sussurrò Maia. Lui si mosse verso di lei con passi perfettamente silenziosi. «Ne è passato di tempo, sorellina.» Maia aveva voglia di scappare, ma si sentiva le gambe come due borse dell'acqua calda. Si premette contro il muro, quasi che lui potesse inghiottirla. «Ma... tu sei morto.»
«E tu non hai pianto al mio funerale, vero, Maia? Niente lacrime per il tuo fratellone...»
«Eri un mostro...» mormorò la ragazza. «Hai tentato di uccidermi...»
«Non con sufficiente impegno.» C'era qualcosa di lungo e acuminato nella sua mano, qualcosa che scintillava come un fuoco argenteo nell'oscurità. Maia non era sicura di cosa fosse, aveva la vista offuscata dal terrore. Mentre Daniel le veniva incontro, lei scivolò a terra, le gambe ormai incapaci di reggerla. Daniel le si inginocchiò accanto. Ora Maia vedeva che cosa aveva in mano: un frammento di vetro frastagliato staccato da una delle finestre rotte. Il terrore montò e la investì come un'onda, ma non era la paura dell'arma in mano al ragazzo ad annientarla, bensì il vuoto nei suoi occhi. Per quanto guardasse dentro e attraverso di essi, scorgeva solo tenebre. «Ricordi» le disse «quando minacciai di tagliarti la lingua prima di lasciarti spifferare la verità sul mio conto a mamma e a papà?»
Paralizzata dalla paura, Maia poteva soltanto fissarlo. Sentiva già il vetro trafiggerle la pelle, il sapore soffocante del sangue riempirle la bocca, e desiderò essere morta, già morta, qualsiasi cosa era meglio di quello spavento, di quell'orrore...
«Basta così, Agramon...» Una voce maschile lacerò la nebbia nella sua testa. Non era la voce di Daniel... Era dolce, raffinata, innegabilmente umana... Ma a chi apparteneva?
«Come desideri, Lord Valentine.» Daniel espirò, un sommesso sospiro di delusione, poi il suo viso cominciò a cancellarsi e a sgretolarsi. In un attimo era scomparso, e con lui il senso di terrore paralizzante, schiacciante, che aveva minacciato di farla morire soffocata. Maia inalò disperatamente l'aria.
«Bene. Respira.» Di nuovo la voce maschile, ora irritata. «Insomma, Agramon, ancora qualche secondo e sarebbe morta.» Maia alzò lo sguardo. L'uomo, Valentine, era ritto su di lei, altissimo, tutto vestito di nero, neri anche i guanti che aveva alle mani e gli stivali dalla spessa suola che aveva ai piedi. Adesso si servì della punta di uno stivale per costringerla ad alzare il mento. Quando parlò, la sua voce era gelida, noncurante. «Quanti anni hai?» Il viso che la fissava dall'alto era stretto, spigoloso, privo di qualsiasi colore, gli occhi neri e i capelli talmente bianchi da farlo apparire una fotografia al negativo. Sulla parte sinistra della gola, subito sopra il colletto del soprabito, aveva un segno a spirale.
«Tu saresti Valentine?» sussurrò Maia. «Ma pensavo che tu...» Lo stivale si abbassò sulla sua mano, facendole guizzare una fitta di dolore su per il braccio. Maia gridò. «Ti ho fatto una domanda» disse Valentine. «Quanti anni hai?»
«Quanti anni ho?» Il dolore alla mano, mescolato al fetore acre dell'immondizia tutt'intorno, le faceva rivoltare lo stomaco. «Vaffanculo.» Una barra di luce sembrò balzare tra le dita di Valentine: lui gliela calò
sul viso così in fretta che la ragazza non ebbe il tempo di scattare all'indietro. Una striscia ardente di dolore le bruciò la guancia; si portò una mano al viso e sentì il sangue renderle le dita scivolose.
«Dunque...» disse Valentine, con la stessa voce chiara e raffinata.
«Quanti anni hai?»
«Quindici. Ho quindici anni.» Maia intuì, più che vedere, il sorriso dell'uomo. «Perfetto.» Una volta di ritorno all'Istituto, l'Inquisitrice separò Jace dai Lightwood e lo condusse di sopra, nella sala addestramento. Scorgendosi negli alti specchi disposti lungo le pareti, Jace si irrigidì per la sorpresa. Erano giorni che non si guardava, e quella appena passata era stata una nottataccia. Aveva gli occhi contornati da ombre nere, la maglietta macchiata di sangue secco e di sudicio fango dell'East River. Il viso era scavato e teso.
«Ti rimiri?» La voce dell'Inquisitrice penetrò nella sua fantasie. «Non sarai così carino quando il Conclave avrà finito con te.»
«Sembri ossessionata dal mio aspetto.» Jace distolse lo sguardo dallo specchio con un certo sollievo. «E se
tutto dipendesse dal fatto che sei attratta da me?»
«Non essere disgustoso.» L'Inquisitrice aveva tirato fuori quattro sottili barre metalliche dalla sacca che portava appesa alla cintura. Spade angeliche. «Potresti essere mio figlio.»
«Stephen.» Jace ricordò quello che Luke aveva detto poco prima. «È così che si chiama, giusto?» L'Inquisitrice si girò e lo affrontò. Le spade che stringeva vibravano d'ira. «Non pronunciare mai il suo nome.» Per un istante, Jace si chiese se lei avrebbe mai potuto provare a ucciderlo. Non aprì bocca, mentre l'Inquisitrice riprendeva il controllo di sé. Senza guardarlo, indicò un punto con una delle spade. «Mettiti in mezzo alla sala, per favore.» Jace obbedì. Pur cercando di non guardare gli specchi, vedeva il proprio riflesso, e quello dell'Inquisitrice, con la coda dell'occhio: gli specchi si rimandavano le immagini a
vicenda, dando vita a un numero infinito di Inquisitrici che minacciavano un numero infinito di Jace. Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle mani legate. Sebbene i polsi e le spalle fossero passati da un lieve dolore a una sofferenza intensa, lacerante, non sussultò quando l'Inquisitrice guardò una delle spade, la chiamò Jophiel e la conficcò nel lucido parquet ai propri piedi. Jace aspettò, ma non accadde nulla.
«Bum?» disse alla fine. «Doveva succedere qualcosa?»
«Zitto.» Il tono dell'Inquisitrice era categorico. «E resta dove sei.» Jace obbedì, guardandola con crescente curiosità mentre estraeva dal fianco un'altra spada, la chiamava Harahel e procedeva a infilare anche quella tra le assi del pavimento.