Capitolo 16 (1^parte )

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CAPITOLO 16

IL SANGUE DEI NASCOSTI

Il sangue dei nascosti Clary pigiò il tasto di richiamata per rifare il numero di Simon, ma il telefono andava direttamente alla casella vocale. Calde lacrime le rigarono le guance e gettò il telefono sul cruscotto. «Accidenti...»
«Ci siamo quasi» disse Luke. Erano usciti dalla strada a scorrimento veloce e non se n'era neanche accorta. Si fermarono davanti alla casa di Simon, una villetta unifamiliare di legno con la facciata dipinta di un rosso
vivace. Clary scese dall'auto e si mise a correre per il vialetto prima ancora che Luke tirasse il freno a mano. Gridò il suo nome mentre si precipitava su per gli scalini e bussava freneticamente alla porta d'ingresso.
«Simon!» gridò. «Simon!»
«Clary, basta.» Luke la raggiunse sulla veranda. «I vicini...»
«'fanculo i vicini.» Armeggiò con il portachiavi che aveva alla cintura, trovò la chiave giusta e la infilò nella serratura. Spalancò la porta e avanzò circospetta nell'ingresso, con Luke alle calcagna. Sbirciarono attraverso la prima porta a sinistra, che dava sulla cucina. Tutto sembrava tale e quale a com'era sempre stato, dal piano di lavoro meticolosamente pulito alle calamite sul frigorifero. C'era il lavello, dove solo pochi
giorni prima aveva baciato Simon. I raggi del sole si riversavano dalle finestre, riempiendo la stanza di pallida luce gialla. Luce capace di ridurre in cenere Simon. La sua camera era l'ultima in fondo al corridoio.
La porta era socchiusa, ma dalla fessura Clary scorse soltanto fitte tenebre. Si sfilò di tasca lo stilo e lo impugnò saldamente. Sapeva che non era una vera e propria arma, ma sentirlo in mano la rassicurava. Dentro, la stanza era buia, le finestre nascoste da tende nere, l'unica luce proveniva dall'orologio digitale sul comodino. Luke stava allungando un braccio oltre di lei per premere l'interruttore, quando qualcosa qualcosa che sibilava, sputava e ringhiava come un demone  gli si scagliò addosso dall'oscurità. Clary urlò, mentre Luke la afferrava per le spalle e la spingeva bruscamente da parte. Inciampò e mancò poco che cadesse; quando si raddrizzò, si girò e vide un Luke dall'aria sbalordita che reggeva un gatto bianco che
miagolava e si dibatteva, il pelo ritto. Sembrava una
palla di ovatta con gli artigli.
«Yossarian!» esclamò Clary. Luke lasciò andare la
bestiola. Yossarian gli schizzò immediatamente tra le gambe e scomparve nel corridoio.
«Stupido gatto» disse Clary. «Non è colpa sua. Io non piaccio ai gatti.» Luke allungò la mano verso l'interruttore e lo premette. Clary rimase senza fiato. La stanza era in un ordine perfetto, non c'era nulla fuori posto, neppure il tappeto era di traverso. Perfino il copriletto era ripiegato ordinatamente.
«È un incantesimo di camuffamento?»
«Probabilmente no. Probabilmente è solo un po' di magia.» Luke si mise al centro della stanza guardandosi intorno con aria pensosa. Mentre andava
a scostare una delle tende, Clary vide qualcosa luccicare nel tappeto ai suoi piedi.
«Luke, aspetta.» Gli si avvicinò e si inginocchiò per recuperare l'oggetto. Era il cellulare di Simon, piegato
e deformato, l'antenna strappata. Lo aprì con il cuore che le martellava. Nonostante la crepa che attraversava lo schermo per il lungo, era ancora visibile un messaggio di testo: Adesso li ho tutti. Clary si lasciò cadere sul letto inebetita. Come attraverso una nebbia,
sentì Luke toglierle il telefono di mano. Poi lo sentì restare senza fiato nel leggere il messaggio. «Che cosa vuol dire "adesso li ho tutti"?» gli chiese. Luke posò il telefono sulla scrivania e si passò una mano sul viso. «Temo che significhi che adesso ha Simone, c'è da supporre, anche Maia. Significa che ha tutto il
necessario per il Rituale della Trasformazione.» Clary lo fissò. «Vuoi dire che Simon non gli serve solo per arrivare a me... e a te?»
«Sono sicuro che Valentine lo considera un piacevole effetto secondario. Ma non è il suo fine principale. Il suo fine principale è trasformare la Spada dell'Angelo. E per questo gli serve...»
«Il sangue di bambini di Nascosti. Ma Maia e Simon non sono bambini. Sono adolescenti.»
«Quando quell'incantesimo è stato creato, l'incantesimo per volgere la Spada dell'Anima alle tenebre, la parola "adolescente" non era stata neanche inventata. Nella società dei Cacciatori si è adulti a diciotto anni. Prima, si è considerati bambini. Per gli scopi di Valentine, Maia e Simon sono bambini. Ha già il sangue di un figlio del Popolo Fatato e di un figlio di
stregone. Gli servono soltanto un lupo mannaro e un vampiro.» Clary si sentì come se le avessero tolto l'aria dai polmoni. «Allora perché ce ne siamo stati con le mani in mano? Perché non abbiamo pensato di proteggerli in qualche modo?»
«Finora Valentine ha fatto quello che gli tornava più comodo. Ha scelto le sue vittime solo perché gli si presentavano su un piatto d'argento. Lo stregone era facile da trovare: Valentine non ha dovuto far altro che assumerlo col pretesto di invocare un demone. Individuare le fate nel parco è abbastanza facile, se sai dove cercare. E l'Hunter's Moon è esattamente il
posto dove andare se vuoi trovare un lupo mannaro. Esporsi a questo pericolo e a queste difficoltà supplementari solo per colpire noi quando nulla è
cambiato...»
«Jace» disse Clary.
«Che c'entra con Jace?»
«Credo che sia a Jace che vuole farla pagare. La scorsa notte Jace deve avere combinato qualcosa sulla barca, qualcosa che ha fatto incavolare Valentine. Incavolare al punto da abbandonare qualsiasi progetto precedente e idearne uno nuovo.» Luke sembrava confuso. «Che cosa ti fa pensare che questo cambiamento di Valentine abbia a che fare con tuo fratello?»
«Perché» rispose Clary con dolorosa certezza «solo Jace può far incavolare a tal punto qualcuno.»
«Isabelle!» Alec tempestò di colpi la porta della sorella. «Isabelle, aprimi, lo so che sei lì dentro.»
La porta si socchiuse. Alec provò a sbirciarci dentro, ma
dall'altra parte non vide nessuno. «Non vuole parlarti» disse una voce ben nota. Alec abbassò lo sguardo e vide due occhi grigi che lo fissavano da dietro un paio di occhiali storti. «Max. Avanti, fratellino, fammi entrare.»
«Neanch'io voglio parlarti.» Max fece il gesto di spingere la porta per richiuderla, ma Alec, svelto come la frusta di Isabelle, infilò il piede nella fessura.
«Non costringermi a sbatterti a terra, Max.»
«Non lo farai.» Il bambino riprese a spingere con tutte
le sue forze.
«No, ma potrei andare a chiamare i nostri genitori e ho
la netta sensazione che Isabelle non voglia assoluta
mente che io lo faccia, vero, Izzy?» chiese alzando la voce in modo che la sorella lo sentisse.
«Oh, per l'amor del cielo.» Isabelle era molto irritata. «Va bene, Max, fallo entrare.» Max si scostò, Alec spinse la porta ed entrò, lasciandola semiaperta alle
sue spalle. Isabelle era seduta nel vano della finestra accanto al letto, la frusta dorata arrotolata attorno al braccio sinistro. Indossava la tenuta da caccia: gli spessi pantaloni neri e la maglia aderente con il motivo quasi invisibile di rune argentee. Aveva gli stivali affibbiati alle ginocchia e i capelli neri mossi dal vento che entrava dalla finestra aperta. Gli lanciò un'occhiata assassina e per un istante gli apparve tale e quale a Hugo, il corvo nero di Hodge.
«Che diavolo fai? Stai cercando di ucciderti?» chiese Alec attraversando furioso la stanza diretto verso la sorella. La frusta si allungò sinuosa e si arrotolò intorno alle sue caviglie. Alec si bloccò, sapendo che a Isabelle bastava un semplice scatto del polso per mandarlo a gambe all'aria e farlo atterrare legato come un salame sul pavimento di legno. «Non ti
avvicinare di un solo centimetro, Alexander Lightwood» disse nel suo tono più furibondo. «Non mi sento molto comprensiva nei tuoi confronti, in questo momento.»
«Isabelle...»
«Come hai potuto rivoltarti a quel modo contro Jace? Dopo tutto quello che ha passato? Avete anche giurato
di vegliare l'uno sull'altro...»
«A patto di non infrangere la Legge» le ricordò.
«La Legge!» saltò su Isabelle, disgustata. «C'è una legge più alta del Conclave, Alec. La legge della famiglia. Jace è la tua famiglia.»
«La legge della famiglia? Non ne ho mai sentito parlare» disse Alec irritato. Sapeva che doveva difendersi, ma non era facile dimenticarsi di una
vita trascorsa a correggere i fratelli minori quando sbagliavano. «Sarà perché l'hai appena inventata?»
Isabelle fece schioccare la frusta. Alec si sentì mancare la terra sotto i piedi e si girò per attutire l'impatto della caduta con le mani. Atterrò, rotolò sulla schiena e alzò gli occhi, ritrovandosi Isabelle che incombeva su di lui. Max era al suo fianco. «Cosa ne
facciamo, Maxwell?» chiese Isabelle.
«Lo lasciamo legato qui finché i nostri genitori non lo trovano?» Alec ne aveva avuto abbastanza. Sfilò una lama dal fodero vicino al polso, la girò e tagliò la frusta che gli avvolgeva le caviglie. Il cavo di elettro si recise di colpo e Alec balzò in piedi, mentre Isabelle ritraeva il braccio con il cavo che le sibilava intorno. Una risatina sommessa stemperò la tensione. «Va bene, va bene, l'avete torturato abbastanza. Sono qui.» Isabelle sgranò gli occhi. «Jace!»
«In persona.» Jace si infilò nella stanza richiudendosi la porta alle spalle. «Non c'è bisogno che litighiate...» Fece una smorfia, quando Max gli si gettò addosso gridando il suo nome, «Ehi, vacci piano» disse, sciogliendosi dall'abbraccio del ragazzino. «Attualmente non sono al meglio della forma.»
«Lo vedo» disse Isabelle esaminandolo con ansia. Jace aveva i polsi insanguinati, i capelli biondi appiccicati al
collo e alla fronte e la faccia e le mani macchiate di sporcizia. «L'Inquisitrice ti ha fatto male?»
«Non troppo.» Gli occhi di Jace incrociarono quelli di
Alec dall'altra parte della stanza. «Mi ha soltanto rinchiuso nella galleria delle armi. Alec mi ha aiutato a scappare.» La frusta si afflosciò come un fiore tra le mani di Isabelle. «Alec... davvero?»
«Sì.» Alec si tolse la polvere del pavimento dai vestiti
con voluta ostentazione. Non poté trattenersi dall'
aggiungere: «Beccati questa.»
«Be', avresti dovuto dirlo.»
«E tu avresti dovuto fidarti un po' di me...»
«Basta, non c'è tempo per bisticciare»disse Jace. «Isabelle, che tipo di armi hai qui dentro? E bende, bende ne hai?»
«Bende?» Isabelle mise giù la frusta e tirò fuori il suo stilo da un cassetto. «Posso sistemarti con un iratze...»
Jace alzò i polsi. «Un iratze andrebbe bene per le mie ammaccature, ma non guarirebbe queste. Sono bruciature provocate da rune.»Alla luce viva della stanza di Isabelle avevano un aspetto ancora peggiore... qua e là le cicatrici circolari erano nere e screpolate e ne colava sangue e un fluido chiaro. Jace abbassò le mani, mentre Isabelle impallidiva. «E avrò anche bisogno di armi, prima di...»
«Innanzitutto, le bende. Poi le armi.» Isabelle posò
la frusta sul cassettone e spinse Jace nel bagno con un cestino pieno di pomate, tamponi di garza e bende. Alec li osservò dalla porta semiaperta; Jace era appoggiato al lavandino, mentre sua sorella adottiva gli puliva i polsi e glieli avvolgeva nella garza bianca. «Okay, adesso togliti la maglietta.»
«Lo sapevo che in qualche modo te ne saresti approfittata.» Jace si tolse la giacca e si sfilò la maglietta dalla testa con una smorfia. La pelle di un
colore dorato pallido era tesa sui muscoli duri. Marchi tracciati con inchiostro nero si avvolgevano intorno al
le braccia esili. Un mondano avrebbe anche potuto pensare che le cicatrici bianche che gli punteggiavano la pelle, residui di vecchie rune, lo rendessero meno perfetto, ma non Alec. Tutti loro avevano quelle cicatrici: erano segni onorifici, non difetti. Vedendo Alec che lo guardava dalla porta semiaperta, Jace disse: «Alec, vuoi prendere il telefono?»
«È sul cassettone.» Isabelle non alzò lo sguardo. Lei e Jace parlavano a bassa voce, Alec non poteva sentirli, ma immaginava che lo facessero per non spaventare Max.

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