capitolo 19
DIES IRAE
«Ti sbagli» disse Clary, ma senza troppa convinzione. «Non sai niente di me o di Jace. Stai solo provando a...»
«A cosa? Sto provando a raggiungerti, Clarissa. A farti capire.» L'unico sentimento che Clary percepiva nella voce di Valentine era un lieve divertimento.
«Ci stai prendendo in giro. Pensi di poterti servire di me per fare del male a Jace, per questo ti stai prendendo gioco di noi. Non sei nemmeno arrabbiato» aggiunse. «Un vero padre lo sarebbe.»
«Io sono un vero padre. Lo stesso sangue che scorre nelle mie vene scorre anche nelle tue.»
«Tu non sei mio padre. Luke lo è» disse Clary stancamente. «Ne abbiamo già parlato...»
«Vedi Luke come un padre solo per via della sua relazione con tua madre...»
«La loro relazione?» Clary rise forte. «Luke e mia madre sono amici.» Per un momento fu certa di vedere un'espressione sorpresa attraversargli il viso. Ma tutto ciò che Valentine disse fu: «Ah, davvero?» E poi: «Pensi sul serio che abbia passato la vita, Lucian, voglio dire, a tacere, a nascondersi, a fuggire, a mantenere lealmente un segreto anche se non lo capiva appieno, solo per amicizia? Per l'età che hai, conosci molto poco le persone, Clary, e tanto meno gli uomini.»
«Puoi fare tutte le insinuazioni che vuoi su Luke. Non cambierà niente. Ti sbagli sul suo conto, proprio come ti sbagli sul conto di Jace. Devi affibbiare motivazioni indegne a tutto quello che fa la gente perché tu capisci solo questo linguaggio.»
«È questo che Lucian sarebbe se amasse tua madre? Indegno?» domandò Valentine. «Che cosa c'è di tanto
brutto nell'amore, Clarissa? O nel profondo di te stessa senti che il tuo caro Lucian non è veramente umano né veramente capace di sentimenti come noi li intendiamo...»
«Luke è umano come lo sono io» sbottò Clary. «Tu sei solo un fanatico.»
«Oh, no» disse Valentine. «Sono tutto fuorché un fanatico.» Le si avvicinò un po' e Clary si spostò davanti alla Spada, coprendogliene la vista.
«Mi giudichi così perché guardi me e il mio operato attraverso la lente della tua interpretazione mondana delle cose. I mondani creano distinzioni tra loro, distinzioni che a qualsiasi Cacciatore appaiono ridicole. Le loro distinzioni sono basate sulla razza, la religione, l'identità nazionale e su una dozzina di altri criteri a piacere. Criteri che ai mondani sembrano logici, perché, sebbene non possano vedere, capire o riconoscere i mondi dei demoni, sepolta da qualche parte nei loro ricordi arcaici c'è la consapevolezza che tra coloro che circolano sulla terra ci sono dei diversi. Che non le
appartengono, che portano solo rovina e distruzione. Dal momento che i mondani non riescono a vedere la minaccia dei demoni, devono attribuirla ad altri della loro stessa specie. Sovrappongono la faccia del loro nemico a quella del loro vicino, garantendo in tal modo generazioni di infelicità.» Fece un altro passo verso di lei ma Clary si ritrasse istintivamente; adesso era schiacciata contro la cassapanca.
«Io non sono così» continuò Valentine. «Vedo come stanno veramente le cose. I mondani, invece, le vedono
come attraverso un vetro, in maniera offuscata, mentre i Cacciatori. .. noi guardiamo in faccia la realtà. Conosciamo la verità del male e sappiamo che, sebbene circoli tra noi, non è parte di noi. A ciò che non appartiene al nostro mondo non deve essere permesso di allignarvi, di crescere come un fiore velenoso e di estinguere ogni vita.» Clary aveva pensato di prendere la Spada e attaccare Valentine, ma le sue parole la colpirono. La sua voce era così dolce, così persuasiva... E inoltre lei non pensava certo che ai demoni si dovesse concedere di stare sulla terra e di ridurla in cenere, come avevano fatto con tanti altri mondi... Sembrava quasi logico, quello che diceva, ma...
«Luke non è un demone» disse.
«A me sembra, Clarissa» ribatté Valentine «che tu abbia ben poca esperienza di ciò che è o non è un demone. Hai conosciuto alcuni Nascosti che ti sono sembrati abbastanza gentili ed è attraverso la lente della loro gentilezza che vedi il mondo. Invece i demoni, ai tuoi occhi, sono creature spaventose che saltano fuori dall'ombra per attaccare e distruggere. E creature del genere esistono. Ma ci sono anche demoni incredibilmente astuti e riservati, demoni che circolano tra gli umani senza essere riconosciuti, indisturbati. Eppure io li ho visti compiere cose talmente tremende da far sembrare mammolette i loro colleghi più bestiali. Una volta, a Londra, conobbi un demone che si spacciava per un potente finanziere. Non era mai solo,
perciò mi era difficile avvicinarmi abbastanza per ucciderlo, anche se sapevo cos'era. Si faceva portare dai suoi servi animali e bambini... qualsiasi cosa fosse piccola e inerme...»
«Smettila.» Clary si tappò le orecchie con le mani. «Non voglio sentire.» Ma la voce di Valentine continuò a parlare monotona, inesorabile, attutita ma percepibile. «Li mangiava adagio, nel corso di molti giorni. Aveva i suoi trucchetti, le sue maniere per tenerli in vita, nonostante le peggiori sevizie. Se riesci a immaginare un bambino che cerca di strisciare verso di te con metà del corpo strappata via...»
«Smettila!» Clary si tolse le mani dalle orecchie. «Ora basta, basta!»
«I demoni si nutrono di morte, dolore e follia» proseguì Valentine.
«Quando io uccido, è perché devo. Tu sei cresciuta in un paradiso falsamente bello, figlia mia, circondato da
fragili pareti di vetro. Tua madre ha creato il mondo nel quale voleva vivere e ti ci ha allevata, ma non ti ha mai detto che era un'illusione. E nel frattempo i demoni aspettavano, con le loro armi di sangue e terrore, di infrangere il vetro e liberarti dalla menzogna.»
«Sei stato tu a infrangere le pareti» sussurrò Clary. «Tu a trascinarmi in tutto questo. Solo tu.»
«E il vetro che ti ha tagliato, il dolore che hai sentito, il sangue? Mi accusi anche di quello? Non sono stato io a metterti in prigione.»
«Smettila. Smetti di parlare e basta.» La testa di Clary ronzava. Avrebbe voluto gridargli: Hai rapito mia madre, hai scatenato tutto questo, è colpa tua! Ma aveva cominciato a capire che cosa intendeva Luke quando diceva che era impossibile discutere con Valentine. In un modo o nell'altro le aveva reso impossibile dissentire da lui senza avere l'impressione di stare dalla parte dei demoni che tagliavano a metà i bambini con un morso. Si chiese come avesse resistito Jace, a vivere tutti quegli anni all'ombra di una personalità così esigente, prevaricatrice. Cominciava a capire da dove veniva l'arroganza di Jace, la sua arroganza unita al sempre vigile controllo delle sue emozioni. Clary aveva il bordo della cassapanca alle sue spalle conficcato nelle gambe. Sentiva il freddo emanato dalla Spada, le faceva rizzare i capelli sulla nuca. «Cos'è che vuoi da me?» chiese a Valentine.
«Che cosa ti fa pensare che io voglia qualcosa da te?»
«Altrimenti non staresti qui a parlarmi. Mi avresti dato una botta in testa e adesso aspetteresti il passo successivo... qualunque esso sia.»
«Il passo successivo» precisò Valentine «prevede che
i tuoi amici Cacciatori ti rintraccino e io dica loro che, se vogliono riaverti viva, dovranno darmi in cambio la lupa mannara. Ho ancora bisogno del suo sangue.»
«Non baratteranno mai Maia con me!»
«È qui che ti sbagli» ribatté Valentine. «Loro sanno qual è il valore di un Nascosto paragonato a quello di una giovane Cacciatrice. Faranno lo scambio. È il Conclave a imporlo.»
«Il Conclave? Vuoi dire che... è previsto dalla Legge?»
«Codificato nella sua stessa esistenza» rispose Valentine. «Adesso capisci? Non siamo così differenti, io e il Conclave, io e Jonathan, e perfino io e te, Clarissa. Abbiamo solo lievi divergenze di idee sul metodo.» Sorrise e fece un passo avanti per coprire la distanza che li separava. Muovendosi più svelta di quanto si sarebbe creduta capace di fare, Clary
allungò una mano dietro di sé e afferrò la Spada dell'Anima. Era pesante come si aspettava che fosse, tanto pesante che perse quasi l'equilibrio. Stendendo un braccio per recuperarlo sollevò l'arma e puntò la lama dritta contro Valentine. La caduta di Jace terminò bruscamente quando lui colpì una dura superficie metallica talmente forte da battere i denti. Tossì, sentendosi il sangue in bocca, e si alzò barcollando, dolorante. Si trovava su una nuda passerella di metallo di un colore verde smorto. L'interno della nave era cavo, un grande locale echeggiante dalle scure pareti metalliche bombate verso l'esterno. Alzando lo sguardo, Luke vide una piccola chiazza di cielo stellato attraverso il buco fumante nello scafo, molto più in alto. La pancia della nave era un labirinto di passerelle e scale che sembravano non condurre da nessuna parte e si intrecciavano l'una sull'altra come le spire di un serpente gigantesco. Faceva un freddo glaciale. Jace vedeva il proprio fiato fuoriuscire in nuvolette bianche, quando espirava. C'era pochissima luce. Socchiuse
gli occhi nell'ombra, quindi si frugò in tasca per recuperare la pietra runica di stregaluce. Il suo bagliore bianco illuminò l'oscuità. La passerella era lunga, e all'estremità opposta c'era una scala che conduceva a un livello inferiore. Mentre Jace la percorreva, qualcosa brillò ai suoi piedi. Si piegò. Era uno stilo. Non poté fare a meno di guardarsi intorno, quasi aspettandosi che qualcuno si materializzasse dall'ombra; come diavolo aveva fatto lo stilo di un Cacciatore a finire lì? Lo raccolse con cautela. Tutti gli stili avevano una specie di aura, di impronta spettrale della personalità del loro proprietario. Questa provocò a Jace un guizzo di dolorosa consapevolezza. Clary. A un tratto il silenzio fu rotto da una risata sommessa. Jace si girò infilando lo stilo nella cintura. Al bagliore della stregaluce distinse una scura sagoma ritta all'estremità della passerella. La faccia era nascosta nell'oscurità.
«Chi è là?» gridò. Non ebbe risposta, ma solo la sensazione che qualcuno ridesse di lui. La mano gli andò automaticamente alla cintura, ma quando era caduto aveva perso la spada angelica. Era disarmato. Ma che cosa gli aveva sempre insegnato suo padre? Se usata in maniera corretta, quasi ogni cosa può diventare un'arma. Si mosse adagio verso la figura, prendendo nota dei vari dettagli intorno a sé: uno spuntone da afferrare all'occorrenza e dal quale lanciarsi in avanti scalciando, un pezzo di metallo abbandonato da lanciare contro un avversario, trafiggendogli la schiena. Questi pensieri gli attraversarono la testa in una frazione di secondo, l'unica frazione di secondo prima che la figura in fondo alla passerella si girasse, i capelli bianchi che scintillavano al bagliore della stregaluce, e che Jace lo riconoscesse. Si fermò di colpo.
«Padre? Sei tu?» La prima cosa di cui Alec si rese conto fu il freddo glaciale. La seconda, che non riusciva a respirare. Cercò di inalare aria e il suo corpo fu scosso da uno spasmo. Si raddrizzò a sedere ed espulse l'acqua sporca del fiume dai polmoni in un fiotto amaro che lo fece soffocare e lo lasciò senza fiato.Finalmente respirò, anche se gli sembrava di avere i polmoni in fiamme. Si guardò intorno ansimando. Era seduto su una piattaforma di metallo ondulato... anzi no, era il cassone di un furgone, di un pick-up che galleggiava in mezzo al fiume. I capelli e gli abiti di Alec grondavano acqua fredda. E di fronte a lui era seduto Magnus Bane e lo guardava con occhi da gatto color ambra che balenavano al buio. Alec cominciò a battere i denti. «Che cosa... cosa è successo?»
«Hai provato a bere l'acqua dell'East River» disse Magnus, e fu come se Alec si accorgesse solo allora che i suoi vestiti erano zuppi, appiccicati al corpo come una seconda pelle scura. «E io ti ho tirato fuori.» Alec si sentiva scoppiare la testa. Cercò tastoni lo stilo nella cintura, ma era sparito. Provò a passare in rassegna quanto era accaduto: la nave infestata dai demoni, Isabelle che cadeva e Jace che la afferrava, il lago di sangue sotto i piedi, il demone che li assaliva...
«Isabelle! Si stava calando giù quando sono caduto...»
«Sta bene. È riuscita a raggiungere una barca. L'ho vista.» Magnus allungò una mano verso la testa di Alec. «Tu, d'altro canto, potresti avere una commozione cerebrale.»
«Devo tornare in battaglia.» Alec gli spinse via la mano. «Tu sei uno stregone: non puoi, che so, trasportarmi in volo alla nave o qualcosa del genere? E visto che ci sei, sistemarmi la commozione?» Magnus, la mano ancora protesa, si lasciò ricadere contro la fiancata del pianale. Alla luce delle stelle i suoi occhi erano schegge verdi e dorate, dure e lisce come gioielli.
«Scusa» disse Alec, rendendosi conto dell'impressione che aveva dato, anche se continuava a pensare che Magnus doveva capire che per lui raggiungere la nave era vitale. «So che non sei obbligato ad aiutarci... è un favore...»
«Smettila. Io non ti faccio favori, Alec. Io faccio delle cose per te perché... be', perché pensi che le faccia?»
Qualcosa montò alla gola di Alec, bloccando la sua risposta. Era sempre così quando si trovava con Magnus. Era come se ci fosse una bolla di dolore o rammarico che viveva nel suo cuore, e quando voleva dire qualcosa, qualunque cosa, che sembrasse significativo o sincero, la bolla montava e soffocava le sue parole. «Devo tornare alla nave» disse infine. Magnus sembrava troppo stanco perfino per arrabbiarsi. «Ti aiuterei» disse. «Ma non posso. Eliminare gli incantesimi difensivi dalla nave è stato già abbastanza duro è una magia molto forte, demoniaca e come se non bastasse quando sei caduto ho dovuto fare un incantesimo al pick-up per non farlo affondare nel momento in cui io avessi perso i sensi. E io perderò i sensi, Alec. È solo questione di tempo.» Si passò una mano sugli occhi. «Non volevo che annegassi. L'incantesimo dovrebbe durare abbastanza da permetterti di riportare il pick-up a terra.»
«Io... non me n'ero reso conto.» Alec osservò Magnus, che aveva trecento anni ma gli era sempre apparso senza tempo, come se avesse smesso di invecchiare a diciannove. Adesso profondi solchi gli incidevano la pelle intorno agli occhi e alla bocca. I capelli gli pendevano flosci sulla fronte e la schiena era ingobbita
non per il solito atteggiamento noncurante, ma per autentica sfinitezza. Alec stese le mani. Erano pallide alla luce della luna, raggrinzite dall'acqua e disseminate da decine di cicatrici argentee. Magnus abbassò lo sguardo su di esse e poi lo spostò nuovamente su Alec, gli occhi offuscati dalla confusione.
«Prendi le mie mani» disse Alec. «E prendi anche la mia forza. Usane quanta ne vuoi per... per tenerti su.»
Magnus non si mosse. «Pensavo che tu dovessi tornare alla nave.»
«Devo combattere» precisò Alec. «Ma è quello che fai anche tu, no? Tu partecipi alla battaglia quanto i Cacciatori sulla nave... e so che puoi assorbire un po' della mia forza, ho sentito che gli stregoni lo fanno... perciò te la offro. Prendila. È tua.» Valentine sorrise. Portava l'armatura nera e guanti rinforzati che luccicavano come carapaci di neri insetti. «Figlio mio.»
«Non chiamarmi così» ribatté Jace, e poi, sentendo
che cominciavano a tremargli le mani: «Dov'è Clary?»
Valentine continuava a sorridere. «Mi ha sfidato. Ho dovuto darle una lezione.»
«Che cosa le hai fatto?»
«Niente.» Valentine si avvicinò a Jace, abbastanza da toccarlo se avesse deciso di stendere la mano. Non lo fece. «Niente da cui non possa riprendersi.» Jace serrò la mano a pugno in modo che il padre non si accorgesse che tremava. «Voglio vederla.»
«Davvero? Con tutto quello che sta succedendo?» Valentine alzò lo sguardo come se potesse vedere, attraverso lo scafo della nave, la carneficina che aveva luogo sul ponte. «Pensavo che volessi combattere con gli altri tuoi amici Cacciatori. Purtroppo i loro sforzi sono vani.»
«Questo non puoi saperlo.»
«Lo so. Per ciascuno di loro posso convocare mille demoni. Neanche il migliore dei Nephilim può resistere difronte a questa differenza numerica. Come nel caso» aggiunse Valentine «della povera Imogen.»
«Come lo...»
«Vedo tutto quello che succede sulla mia nave.» Gli occhi di Valentine si socchiusero. «Lo sai che è colpa tua se è morta, vero?» Jace rimase senza fiato. Sentiva il cuore che gli martellava come se volesse strapparglisi dal petto.
«Se non fosse stato per te, nessuno di loro sarebbe venuto qui. Pensavano di venire a salvarti, sai. Se si fosse trattato solo dei due Nascosti, non si sarebbero mai presi la briga.» Jace se n'era quasi dimenticato. «Simon e Maia...»
«Oh, sono morti. Tutti e due.» Il tono di Valentine era indifferente, perfino amabile. «In quanti devono morire, Jace, prima che tu veda la verità?» A Jace sembrava di avere la testa piena di fumo vorticante. Aveva un dolore lancinante alla spalla. «Abbiamo già fatto questo discorso. Ti sbagli, padre. Potrai anche avere ragione sui demoni,potrai anche avere ragione sul Conclave, ma non è questo il modo...»
«Volevo dire» riprese Valentine «quando vedrai che sei esattamente come me?» Nonostante il freddo, Jace aveva cominciato a sudare. «Cosa?»
«Io e te siamo uguali. Come mi hai detto una volta, tu sei quello che io ti ho fatto diventare, e io ti ho fatto a
mia immagine e somiglianza. Hai la mia arroganza. Hai il mio coraggio. E hai quella qualità che fa sì che gli altri diano la loro vita per te senza esitare.» Qualcosa risuonava con insistenza nei recessi della mente di Jace. Qualcosa che lui avrebbe dovuto sapere, o aveva dimenticato... la spalla gli bruciava...
«Non voglio che la gente dia la vita per me» gridò. «No. Tu vuoi. Ti piace sapere che Alec e Isabelle morirebbero per te. E anche tua sorella. L'Inquisitrice
è morta per te, non è vero, Jonathan? Eri presente e hai lasciato che lei...»
«No!»
«Tu sei esattamente come me... non c'è da stupirsene, non credi? Siamo padre e figlio, perché non dovremmo assomigliarci?»
«No!» La mano di Jace guizzò e afferrò uno spuntone di metallo contorto. Si ruppe con uno schianto sonoro e
gli rimase in mano; nel punto in cui si era spezzato, il bordo era seghettato e terribilmente acuminato. «Non
sono come te!» gridò, e conficcò lo spuntone dritto nel petto del padre. Valentine spalancò la bocca. Indietreggiò barcollando con l'estremità dello spuntone che gli sporgeva dal petto. Per un istante Jace non poté fare altro che stare a guardare, pensando: Mi ero sbagliato... è proprio lui... Poi Valentine sembrò crollare su se stesso, il corpo che si sgretolava come sabbia. Si trasformò in cenere e si disperse nell'aria gelida, riempiendo l'aria di odore di bruciato. Jace si mise una mano sulla spalla. Nel punto in cui la runa Antipaura si
era consumata bruciando, la pelle era calda al tatto. Fu sopraffatto da un gran senso di debolezza. «Agramon» sussurrò, e cadde in ginocchio sulla passerella. Jace passò soltanto pochi minuti inginocchiato a terra in attesa che il battito impazzito rallentasse, ma gli parvero un'eternità. Quando finalmente si alzò, aveva le gambe irrigidite dal freddo e la punta delle dita blu. L'aria continuava a puzzare di bruciato, sebbene non ci fosse traccia di Agramon. Senza mollare il suo spuntone metallico,Jace si diresse verso la scala a pioli in fondo alla passerella. Lo sforzo di scenderla tenendosi con una mano sola gli schiarì le idee. Si lasciò cadere dall'ultimo piolo e si ritrovò su una seconda stretta passerella che correva sul lato di una vasta sala di metallo. C'erano decine di altre passerelle, collegate a più livelli alle pareti, e un assortimento di tubi e macchinari. Dai tubi provenivano colpi violenti, e di quando in quando uno di essi emetteva un getto di vapore, sebbene nell'aria permanesseun freddo pungente.