capitolo 5
I PECCATI DEI FIGLI
L'oscurità delle prigioni della Città Silente era più profonda di qualsiasi altra oscurità che Jace avesse mai sperimentato. Non riusciva a vedersi la mano davanti al naso, non vedeva il pavimento della cella e neppure il soffitto. Ciò che sapeva di quella cella
derivava dall'unica occhiata che le aveva dato alla luce di una torcia, quando era stato portato laggiù da un
gruppetto di Fratelli Silenti che gli avevano aperto
il cancello a sbarre e lo avevano fatto entrare come un criminale comune. In fondo, probabilmente, era proprio quello che pensavano fosse. Sapeva che la cella aveva un pavimento di pietra lastricata, che tre delle pareti erano di roccia sbozzata e la quarta era costituita da fitte sbarre di ferro le cui estremità erano profonda
mente conficcate nella pietra. Sapeva che in quelle sbarre era incastonata una porta. Sapeva anche che lungo la parete est correva un'asta di metallo, perché i Fratelli Silenti vi avevano attaccato l'anello di un paio di manette,fissando l'altro al suo polso. Poteva fare qualche passo avanti e indietro, sferragliando come il fantasma di Marley, ma più lontano non poteva andare. Si era già scorticato a sangue il polso destro strattonando nervosamentele manette. Almeno era mancino: un puntino di luce in quelle tenebre
impenetrabili. Non che importasse granché, ma era rassicurante avere la mano con cui combatteva un po' più libera. Cominciò un'altra lenta passeggiata lungo la cella, strisciando le dita sul muro mentre camminava. Era snervante non sapere che ora era. A Idris suo padre gli aveva insegnato a capire l'ora dall'angolazione del sole, dalla lunghezza delle ombre, dalla posizione delle stelle nel cielo notturno. Ma lì
dentro non c'erano stelle. In effetti, aveva cominciato a chiedersi se l'avrebbe mai rivisto, il cielo. Jace si fermò. Ma cosa stava dicendo? Certo che avrebbe rivisto il cielo. Il Conclave non lo avrebbe sicuramente
ucciso. La pena di morte era riservata agli assassini. Eppure quella senzazione di paura non lo lasciava, quel
frullo sotto la gabbia toracica, inquietante come un'improvvisa fitta di dolore. Jace non era incline ad avere attacchi di panico, anzi, Alec diceva che un po' di vigliaccheria costruttiva gli avrebbe fatto bene. La paura non era una cosa che lo avesse mai riguardato granché. Pensò a Maryse che diceva: "Non avevi mai paura del buio." Era vero. Questa ansia era innaturale, non era affatto da lui. Doveva essere provocata da qualcosa di più della semplice oscurità. Fece un altro,
breve respiro. Doveva solo superare la notte. Una notte. Ecco. Avanzò di un altro passo, facendo tintinnare le manette in maniera lugubre. Un suono lacerò l'aria facendolo fermare di colpo. Era un grido lamentoso, un suono di terrore puro, folle. Sembrava continuare all'infinito, come una nota suonata da un violino, e diventare sempre più acuto, sottile e stridulo, finché non fu bruscamente interrotto. Jace imprecò. Gli fischiavano le orecchie e si sentiva in bocca il sapore del terrore come metallo amaro. Chi avrebbe mai pensato che la paura avesse un sapore? Spinse la schiena contro la parete della cella, cercando di
calmarsi. Il grido tornò, questa volta più forte, e poi ce ne fu un altro, e un altro ancora. Qualcosa si schiantò sopra di lui. Jace senza volere si piegò, prima di ricordare che si trovava parecchi livelli sotto terra. Sentì un altro schianto e un'immagine prese forma nella sua mente: le porte del mausoleo spalancate con forza, i cadaveri dei Cacciatori morti da secoli che barcollavano verso la libertà, scheletri tenuti insieme da tendini rinsecchiti che si trascinavano sui pavimenti bianchi della Città Silente con ossute dita scarnificate... Basta! Ansimando per lo sforzo, Jace si obbligò a scacciare quella visione. I morti non tornavano. E poi erano cadaveri di Nephilim come lui, suoi fratelli e sorelle assassinati. Non aveva niente da temere da loro. E allora perché aveva tanta paura!
Serrò le mani a pugno,affondando le unghie nei palmi. Questo panico era indegno di lui. L'avrebbe dominato. Schiacciato. Fece un profondo respiro, riempiendosi i polmoni, e in quello stesso istante risuonò un altro urlo, stavolta fortissimo. Il respiro gli uscì soffocato dal petto, mentre qualcosa si schiantava sonoramente a due passi da lui, e vide un improvviso lampo di luce, un
ardente fiore di fuoco che gli trafisse gli occhi. Fratello Geremia gli apparve vacillando, la mano destra stretta su una torcia ancora accesa, il cappuccio color
pergamena scivolato indietro a mostrare lineamenti contorti in una grottesca espressione di terrore. La
bocca, in precedenza cucita, era spalancata in un grido muto, con i fili insanguinati dei punti strappati che penzolavano dal labbro superiore. Aveva la tonaca schizzata di sangue, nero alla luce della torcia. Fece alcuni passi in avanti barcollando, le mani protese... poi, sotto lo sguardo incredulo di Jace, cadde in avanti e piombò a faccia in giù sul pavimento. Jace sentì le ossa che si rompevano, quando il corpo dell'archivista colpì terra e la torcia sfrigolò, rotolando via dalla mano di Geremia verso il canaletto di scolo scavato nel pavimento di pietra poco fuori le sbarre della cella. Jace si inginocchiò subito, allungandosi quanto glielo
consentiva la catena, le dita tese verso la torcia. Non riusciva a toccarla. La luce si stava estinguendo rapidamente, ma al suo bagliore sempre più debole Jace vide il viso di Geremia rivolto verso di lui con il sangue che continuava a colargli dalla bocca aperta. I denti erano neri moncherini. Jace si sentiva il petto schiacciato da un peso opprimente. I Fratelli Silenti non aprivano mai bocca, non parlavano mai e neppure ridevano o urlavano. Ma era quello il grido che aveva sentito, ormai ne era certo... Le urla di uomini che non
avevano gridato per mezzo secolo: il suono di un terrore più profondo e potente dell'antica Runa del Silenzio. Ma cos'era successo? E dov'erano gli altri Fratelli! Jace avrebbe voluto urlare per chiedere aiuto, ma il peso continuava a schiacciargli il petto, spingendolo giù, impedendogli di prendere sufficiente aria. Fece un altro scatto in avanti verso la torcia e sentì spezzarsi uno degli ossicini del polso. Ildolore gli guizzò su per il
braccio, ma gli diede i due centimetri in più che gli servivano. Afferrò il manico della torcia con la mano destra e si alzò. Mentre la fiamma si rianimava, sentì un altro rumore. Un rumore quasi viscoso, uno sgradevole strascicare. Gli si rizzarono i peli sulla nuca. Spinse la torcia in avanti, facendo danzare con mano
tremante selvaggi lampi di luce sulle pareti e rischiarando vividamente le ombre. Non c'era niente.
Invece di provare sollievo, sentì crescere il terrore.
Respirava a bocca aperta, affannosamente, ma si sentiva come se fosse sott'acqua. La paura era accresciuta dal fatto che gli era così poco familiare. Che cosa gli stava succedendo? Tutt'a un tratto era diventato un codardo? Diede un forte strattone alle manette, sperando che il dolore gli schiarisse le idee. Macché. Sentì di nuovo il rumore, quel greve strascicare, adesso più vicino. C'era anche un altro suono,dietro lo strascichio, un sussurro sommesso, costante. Un suono malvagio, come non l'aveva mai sentito. Quasi fuori di sé per l'orrore, indietreggiò vacillando verso la parete e sollevò la torcia con la mano che gli tremava violentemente. Per un istante, chiara come la luce del sole, vide tutta la stanza: la cella, la porta a sbarre, le lastre di pietra e il corpo morto di Geremia rannicchiato sul pavimento. C'era una porta subito dietro il cadavere. Si stava aprendo lentamente. Qualcosa la varcò a fatica. Qualcosa di
grande, scuro e informe. Occhi come ghiaccio ardente, profondamente infossati in pieghe scure, guardarono Jace con un'aria di rabbioso divertimento. Poi la cosa si
scagliò in avanti. Una nube di vapore turbinante sì alzò davanti agli occhi di Jace come un'onda che spazza la superficie del mare. L'ultima cosa che vide fu la fiamma verde e azzurra della torcia che tremolava prima di essere inghiottita dalle tenebre. Baciare Simon era un piacere. Un piacere dolce, come starsene stesi su un'amaca in un giorno d'estate con un libro e un bicchiere di limonata fresca. Era il genere di cosa che potevi continuare a fare senza sentirti annoiata, apprensiva, turbata o seccata da nient'altro che la sbarra di metallo del divano letto che ti si conficcava nella schiena.
«Ahi» fece Clary, cercando invano di strisciare lontano dalla sbarra.
«Ti ho fatto male?» Simon si sollevò sul fianco con ar
ia preoccupata. O forse era perché senza occhiali i suoi
occhi sembravano più grandi e scuri.
«No, non tu... è il letto. È uno strumento di tortura.»
«Non ci avevo fatto caso» disse Simon con aria cupa agguantando un cuscino che era caduto sul paviment
o e infilandolo sotto di loro.
«Immagino.» Clary rise, «Dov'eravamo rimasti?
«Be', il mio viso era più o meno dov'è adesso, ma il tuo era molto più vicino al mio. In ogni caso, è quello che ricordo.»
«Che romantico.» Se lo tirò sopra, e lui si tenne in equilibrio sui gomiti. I loro corpi erano perfettamente sovrapposti e Clary sentiva il battito del cuore di Simon attraverso le loro magliette. Quando si chinò a baciarla, le sue ciglia, di solito celate dietro gli occhiali, le sfiorarono la guancia. Clary emise un risolino incerto. «Non ti sembra strano?» sussurrò.
«No. Credo che quando si immagina spesso una cosa, e poi si realizza, è...»
«Ammosciante?»
«No, no!» Simon si tirò indietro fissandola con lo sguardo convinto dei miopi. «Non pensarlo neppure. È il contrario di ammosciante. È...» Risatine soffocate le ribollivano in petto. «Okay, forse non è il caso di
approfondire...» Simon socchiuse gli occhi, la bocca che si piegava in un sorriso. «Okay, avrei una gran voglia di risponderti per le rime, ma non riesco a pensare ad
altro che...» Clary gli sorrise. «Che a fare sesso?»
«Smettila.» Lui le prese le mani nelle sue, le bloccò su
l copriletto e la guardò con aria seria. «Che ti amo.»
«Così non vuoi fare sesso?» Le lasciò le mani. «Non ho detto questo.» Clary rise e gli spinse il petto con tutte e due le mani. «Fammi alzare.» Simon sembrò allarmato. «Ciò che intendevo dire è che non voglio fare solo sesso...»
«Non è per questo. Voglio mettermi il pigiama. Non posso farlo sul serio con le calze ancora addosso.» Simon la guardò con tristezza mentre prendeva il pigiama dal cassettone e si avviava in bagno. Mentre chiudeva la porta gli fece una smorfia. «Torno subito.»
Qualunque fosse la risposta, si perse nel fracasso della porta chiusa. Clary si lavò i denti e poi fece scorrere
l'acqua per un pezzo, mentre si fissava nello specchio dell'armadietto dei medicinali. Aveva i capelli arruffati e le guance rosse. Significava che era radiosa?,si chiese. La gente innamorata era radiosa, no? O forse valeva solo per le donne incinte, non lo ricordava bene, ma certo avrebbe dovuto apparire un po'diversa. Dopotutto, questa era la prima seduta lunga di baci che avesse mai avuto... Ed era stata bella, si disse, tranquilla, piacevole e rilassata. Naturalmente, aveva baciato Jace la notte del suo compleanno, e quello
di bacio, non era stato affatto tranquillo, piacevole e rilassato. Era stato come dare libero sfogo a una vena ricca di qualcosa di sconosciuto all'interno del suo corpo, qualcosa di più caldo, dolce e amaro del sangue.
Non pensare a Jace,si disse con espressione feroce. Ma guardandosi allo specchio vide i suoi occhi incupirsi e capì che il corpo ricordava anche se la mente non voleva. Fece scorrere l'acqua fredda e se la spruzzò in faccia, quindi allungò la mano verso il pigiama. Fantastico, pensò, aveva preso il sotto ma non il sopra. Per quanto Simon potesse apprezzarlo, le sembrava un po' presto per affrontare la nottata in topless.Quando tornò nella stanza scoprì che Simon si era addormentato nel centro del letto, stringendo il cuscino cilindrico come se fosse un essere umano. Soffocò una risata.
«Simon...» sussurrò poi sentì l'acuto bip bip a due toni che segnalava l'arrivo di un messaggio sul cellulare che stava sul comodino; Clary prese il telefono e vide che l'SMS era di Isabelle. Aprì il telefono e fece scorrere rapidamente il testo sul display. Lo lesse due volte, giusto per essere sicura di non avere le tra veggole. Poi corse verso l'armadio per prendere la giacca. «Jonathan.» La voce aveva parlato nell'oscurità: lenta, cupa, familiare come il suo dolore. Jace sbatté le palpebre e aprì gli occhi nel buio. Rabbrividì. Era
raggomitolato sul gelido pavimento di lastre di pietra. Doveva essere svenuto. Sentì una fitta di rabbia contro la propria debolezza, la propria fragilità. Rotolò su un fianco con il polso straziato che pulsava nell'anello delle
manette. «C'è qualcuno?»
«Spero proprio che tu riconosca tuo padre, Jonathan.» La voce era risuonata di nuovo e solo ora Jace la riconobbe: il suo tono di ferro vecchio, la sua assenza quasi assoluta di espressione, la sua uniformità. Cercò di mettersi faticosamente in piedi, ma gli stivali slittarono su una pozza non meglio identificata e scivolò all'indietro, sbattendo con le spalle contro la parete. La catena sferragliò come un coro di campanelle d'acciaio.
«Sei ferito?» Una luce divampò verso l'alto, accecando gli occhi di Jace. Lui li sbatté per farne sgorgare lacrime ardenti e vide Valentine in piedi oltre le sbarre, accanto al cadavere di Fratello Geremia. La stregaluce scintillante che teneva in mano proiettava un intenso bagliore biancastro nella stanza. Jace vide le macchie di sangue vecchio sulle pareti... e sangue più
recente, una piccola pozza, che si era versato dalla bocca aperta di Geremia. Si sentì stringere e contorcere lo stomaco e pensò all'informe sagoma nera che aveva visto poco prima, con gli occhi come gioielli di fuoco.