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La mattina portava con sé, puntuale, dal sorgere del sole fino al picco dello stesso, il rumore dei fendenti e degli attriti che le spade celtiberiche (n.d.a: antico nome del gladio) producevano al contatto provocato dai detentori delle armi: i futuri legionari. In ogni colpo traspariva una furia cieca, seppur misurata e calibrata, in modo da rendere efficaci i vari colpi. Ogni giorno, quei ragazzi: romani addestrati a servire la Città o prigionieri Galli, provenienti dalla grande vastità dei territori del nord, uniti nel solo nome di Gallia, si addestravano per l'unico fine di servire Roma, o morire per essa. Si poteva notare, tuttavia, una delineata differenza che sussisteva tra gli allievi romani e quelli stranieri: i primi erano disposti a tutto per servire la loro patria, si allenavano al meglio e compensavano il loro aspetto, non esattamente statuario quanto quello dei compagni del Nord, con una innata forza d'animo e un'eccellente padronanza delle armi presenti nell'arena. Al contrario loro, i celti si distinguevano per la forza fisica, che spesso e volentieri bastava per gettare al suolo i ragazzi romani contro cui si battevano. Una luce malinconica e furiosa si poteva scorgere in quegli occhi generalmente chiari, una tangibile mancanza. Per la sopravvivenza in terra straniera, si dedicavano di buon grado all'addestramento, ma non era affatto raro udire, nel buio della notte, il suono di pianti e preghiere in lingue sconosciute, rivolte alla patria, alle donne amate, alle famiglie e ai figli ormai troppo lontani da loro. Fearghal non aveva fatto eccezione, piangendo spesso suo padre, che lo aveva visto essere preso "in custodia" dai soldati romani, sua madre che probabilmente aspettava di vederlo tornare assieme al marito, con qualche preda di cacciagione da cucinare per cena. Era sicuro che anche lei aspettava e sperava tacitamente di vederlo tornare, di scorgere la sua figura stagliarsi sull'uscio della casa, tra le montagne. Aveva passato i primi mesi come "prigioniero", anche se Valerio preferiva descriverlo come "ospite" per non alimentare l'ostilità degli abitanti della Gallia Transalpina, a compiangere le sue montagne, la sua famiglia, persino la sposa che suo padre aveva designato per lui, di cui a malapena ricordava il nome. A volte, dopo quasi due anni, gli sembrava di sentire ancora la voce della madre cantare per lui, raccontare storie. Col tempo, aveva imparato a seppellire il dolore e a dedicare anima e corpo alla leva militare, con la speranza di poter tornare tra le sue cime, e di ritrovare tutto come lo aveva lasciato. Nella domus del centurione la vita proseguiva tranquilla, dal contatto al chiaro di luna, non si sentivano più i litigi tra Livia Giulia e l'esuberante Gaia, che aveva preso ad assecondare più spesso la madre, permettendole di insegnarle l'opportuno per una giovane donna che sempre più velocemente si avvicinava all'età del matrimonio. In casa non se n'era mai parlato apertamente, ma la giovane confidava in suo padre, e nel fatto che non l'avrebbe forzata a compiere gesti che non voleva lei stessa. La sua presenza in arena, di conseguenza, era notevolmente ridotta nel tempo a causa delle accortezze a cui Livia Giulia obbligava Gaia. Infatti la matrona considerava il così stretto contatto con gli uomini, specialmente coi soldati, sconveniente per una donna del suo rango. Gaia, infatti aveva notato un cambiamento radicale negli sguardi dei concittadini. Se, quando fuggiva da più piccola, in un abbigliamento disordinato e per nulla simile a quello che Livia Giulia utilizzava in pubblico, ora era tenuta ad essere quantomeno decorosa, e a non scordare di indossare la cintura: l'unico indumento che poteva dire di odiare. La sua mancanza, tuttavia, avrebbe contribuito a gettare malelingue sull'illustre famiglia di cui faceva parte, facendo parlare di lei come di una lupa, una prostituta. Mentre in infanzia, i passanti la osservavano scappare veloce accennando un sorriso divertito nei confronti della fanciulla, ora le attenzioni erano completamente diverse: specialmente quelle rivolte da parte di ragazzi e uomini. Non poteva fare a meno di notare, durante le sue ormai saltuarie presenze in arena, al fianco del padre, che anche i soldati sembravano fissarla con un apparente interesse. Aveva scoperto di apprezzare la raffinatezza della moda romana, e di essere a suo agio anche con gran parte degli abiti "ufficiali" che utilizzava in qualunque luogo non fosse casa sua. Apprezzava particolarmente le stoffe purpuree, che accentuavano la sua pelle chiara come nessun altro colore, e distinguevano la sua nobiltà in mezzo a mille altri cittadini romani. La sua presenza in arena, infatti, non poteva non essere notata. Fearghal, infatti, occupava i primi secondi degli allenamenti corpo a corpo per identificare l'eventuale presenza di quella ragazza esile, vestita di colori sgargianti e agghindata alla moda sofisticata delle giovani matrone. La prima volta che l'aveva ammirata in tenuta ufficiale era stato poco dopo il primo incontro riservato a loro, ancora non conosceva il latino a sufficienza, ma aveva notato in lei un cambiamento radicale difficile da comunicarle con le poche locuzioni che padroneggiava. Ciò che sicuramente non cambiava era sicuramente il suo pensiero: gli era sembrato di assistere alla discesa di uno degli dei di cui lei raccontava, Venere o forse Minerva, in persona. Dopo anni, ancora si trovava a guardarla incantato dalla sua eterea bellezza, che fosse durante gli addestramenti, piuttosto che tutte le notti che trascorrevano nei campi di ulivo assieme. In quei momenti riconosceva la sua Gaia, vestita di una tunica bianca leggera, senza spille o accessori ingombranti, coi capelli che le cadevano fluenti sulle spalle. Gli ricordava una delle dee di cui più spesso parlava sua madre nelle sue storie: Brixta. La preferiva decisamente nelle sue apparizioni più informali e notturne. A volte si ritrovava a pensare di portarla in Helvetia un giorno, e sposarla lì, per poi realizzare che non sarebbe mai stato possibile. Vantava la nobiltà tra le sue montagne, ma in confronto con quella romana rimaneva un nulla, quindi non avrebbe mai avuto il consenso di Publio Valerio. Ciò non fermava i due giovani, che continuavano ad incontrarsi di nascosto tra gli ulivi.

Finalmente Fearghal poteva capirla, e apprezzare i suoi racconti, per poi esprimere propriamente i suoi ed osservare lo stupore negli occhi della corvina, che portava, almeno con la mente, tra le sue montagne. Spesso parlavano della famiglia dell'Elvetico, che lo attendeva in patria. L'argomento faceva capolino spesso, viste le tensioni che si manifestavano tra le due parti alleate. Con la mente, il celtico faceva ritorno al giorno della sua cattura. Raccontava a Gaia come quel giorno, il sole, fosse restio a mostrarsi. Non si udiva un solo rumore fendere l'aria, tuttavia si notava la presenza di corvi, intenti a divorare una carcassa di cervo nei boschi. Gli araldi della guerra, della saggezza, della morte. Il silenzio mortale che attanagliava le profondità del bosco rendeva fondamentale il silenzio verso i due uomini, intenti a cacciare. Nei loro boschi si erano imbattuti nelle guardie romane, dove non dovevano trovarsi. "Non si viaggia armati in territorio romano", il monito esplicato nella lingua elvetica dal centurione. Anche se non si trovava a Roma, venne prelevato e utilizzato come garanzia della fedeltà degli elvezi all'alleanza. Ma di questo non si poteva parlare, e non poteva certamente farne menzione con Gaia, figlia di colui che lo aveva ammonito: se avesse taciuto il fatto poteva quantomeno sperare nella sopravvivenza e nel rivedere la sua patria, altrimenti sarebbe stato il primo di un grande massacro. Per quanto, a volte, durante le nottate trascorse con la ragazza romana, la voglia di togliersi il peso di questa controversa verità, pareva voler prevalere sulla ragione, il pensiero della devastazione del suo amato popolo lo faceva desistere, e le parole parevano morirgli in gola.

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