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Tra le cose che l'ormai matura romana ricordava con un certo affetto c'erano gli avvenimenti relativi ad una torbida sera di un lontano Sextilis. La sua mente rievocava spesso il freddo chiarore della luna, che quella sera splendeva in modo insolito: il cielo limpido che aveva circondato la città per tutto il giorno aveva ceduto il posto ad una luna chiarissima, tuttavia fugace, presa a nascondersi dietro alle scure nuvole, che non lasciavano intravedere nemmeno una stella, se non per gli strappi di cielo scuro che brillava, di un blu scuro incantevole; quando la luna decideva di degnare gli occhi stanchi della sua pallida luce. Di quella notte, Gaia Valeria, ricordava i minimi dettagli, che erano incisi nella sua memoria come sculture nel marmo: erano passati anni da quando Fearghal, il gallico, era giunto nella sua Roma per essere addestrato alle armi e al costume del posto. Ormai il suo latino era piuttosto fluente, nonostante il marcato accento straniero che, pensava lei, lo rendesse più orecchiabile. Quando lui le rivolgeva la parola nella sua lingua madre, istintivamente, un sorriso le si dipingeva sulle labbra rosee al ricordo della tacita battaglia tra loro, di quando aveva scelto di seppellire per qualche momento la superiorità che il suo nome le garantiva, e che le aveva garantito fin dalla sua nascita, ormai quasi diciassette anni prima. Quindi sgattaiolava fuori dalle sue stanze, con la complicità della luce che, raramente, osava infiltrarsi in quella parte della domus, se non per qualche solitario raggio di luna che illuminava i pavimenti e il suo cammino felino, diretto verso la stanza dell'elvetico. Era solita bussare tre volte alla porta in legno antico, ricavata da uno degli ulivi di proprietà del padre, caduto durante una furiosa tempesta. Gaia, ormai, aveva rinunciato all'appellativo di domina, caldamente consigliato dal padre e che l'elvetico doveva riservare alle due donne di casa. Nei confronti della madre, Livia Giulia, quella parola proferita dal gallico suonava rispettosa, reverenziale, avrebbe osato dire. Nei suoi, invece, le pareva più sarcastica, non le piaceva il tono con cui pronunciava quell'epiteto rivolto a lei: spesso, nella quotidianità della sua vita da donna matura, si ritrovava a pensare che forse il tono non era poi così differente. Dopo mesi, passati sul piedistallo che la sua gens aveva costruito, aveva deciso di provare a convivere pacificamente con l'inquilino straniero: le si era presentata come Gaia Corvina, elidendo la parte del nome che identificava la sua nobiltà. Dal canto suo, il celtico, non aveva ancora assodato le fondamenta del latino per poterla capire: si serviva, infatti, delle traduzioni di Publio Valerio, che esplicava il necessario in un gallico prossimo alla perfezione. Tuttavia le conversazioni con la figlia non erano oggetto di queste.  Il centurione era stato piuttosto chiaro riguardo alle interazioni non necessarie e inopportune con le domine della casa, tuttavia era piuttosto indulgente nei confronti di Gaia, che trasgrediva alla regola mantenendo un profilo basso, ma non a sufficienza per passare inosservato agli occhi attenti del comandante.

La spregiudicata ragazza, dopo aver iniziato ad aiutare il ragazzo con la sua lingua nativa, aveva scoperto di nutrire un insolito interesse nei confronti di Fearghal, così diverso e taciturno rispetto alle persone che la circondavano. I corridoi, quindi, la portavano a recarsi tacitamente verso la sua stanza, a bussare e correre in un angolo della piantagione di ulivi del padre, lontana dalla possibile vista del padre, ma sufficientemente vicina per permettere al biondo di accorgersi di lei. Le prime cinque notti le aveva passate ad aspettare a lungo, al chiaro di luna, che illuminava le foglie argentee degli ulivi e la sua tunica bianca. Il celtico non si decideva a farsi vivo. Quindi, dopo qualche ora, al sorgere dell'alba, tornava furtivamente alle sue stanze, come se nulla fosse accaduto. La mattina riprendeva a incrociare il ragazzo, all'arena per gli addestramenti, piuttosto che nei giardini, con un precettore atto ad insegnargli il latino. Per qualche notte evitò di disturbare la quiete dello straniero, ma alla fine la curiosità della giovane ebbe la meglio. Quella notte era stato particolarmente difficile avvicinarsi alla stanza del gallico, complice il padre, rimasto sveglio fino a tardi. Alla fine era riuscita a compiere il solito gesto, tre colpi leggeri sulla porta, e uscire, sedendo ai piedi di un albero, con il favore della luna che spesso si celava dietro alle nuvole. Dopo poco, una figura non ben definita, ma alta e presumibilmente forte, si stagliava all'uscio della casa di Gaia, volgendosi di tanto in tanto per cercare qualcuno. Poteva essere chiunque, ma i capelli biondi, raccolti disordinatamente, che brillavano al chiaro di luna, lasciavano ben poco all'immaginazione. La ragazza azzardò un cenno della mano che lo sconosciuto intercettò al volo, mentre si dirigeva velocemente verso di lei. Com'era solito fare nel contesto formale del giorno, era prossimo a mettersi in ginocchio al cospetto della giovane domina. Gaia lo aveva già capito, infatti, si trovò presto a tendergli la mano, per aiutarlo a rialzarsi da terra, con grande stupore del giovane: poi le si presentò con il nome che lei gradiva di più. Dopo avergli concesso di accomodarsi sotto allo stesso albero, lui stentò una presentazione in un latino approssimativo: si chiamava Fearghal ed era elvetico. O almeno questo credeva di aver capito Gaia, che gli sedeva accanto e lo fissava in quei suoi tumultuosi occhi azzurri. Poi, volgendo lo sguardo alla luna, ebbe un'idea. "Quella è la nostra Diana" andava dicendo in latino, indicando la falce argentata che si stagliava irregolarmente nel cielo e raccontando della sua nascita, dell'amore di Giove per Leto, che portò quest'ultima dea a generare due gemelli: Febo e Diana, il sole e la luna. Il gallico ascoltava assorto, nonostante entrambi sapessero che non comprendeva la maggior parte di ciò che la romana diceva. Per cercare di rendersi comprensibile prese un bastoncino che si trovava a poca distanza dalla sua mano e prese a disegnare due simboli al suolo. Un sole e una luna. Indicandoli alla ragazza diceva qualcosa nella sua lingua, che faceva sorridere Gaia, finendo per esplicare solamente due nomi. "Arduinna" indicando la luna e "Grannos", indicando il sole. Dovevano essere quelli i nomi dei suoi dei. Per vedere le iscrizioni, Gaia si era ulteriormente avvicinata e presto si erano trovati a fissarsi in modo curioso, e strano a chiunque fosse estraneo alla situazione. Ma in quel momento, nemmeno la presenza del padre di lei avrebbe potuto turbarli. Era tutto diventato parte di un immaginario mistico: un ragazzo e una ragazza al cospetto della luna stessa. Gaia continuava a fissare gli occhi di Fearghal, che la notte accendeva delle più svariate sfumature di blu e verde, nel suo cuore un tumulto più rumoroso di una schiera di tamburi che presagivano la guerra. Non aveva fatto caso al celtico che si avvicinava, finché non ritrovò le sue labbra a contatto con quelle dell'elvetico, mentre lui le scostava, con una delicatezza di cui nessuno lo avrebbe creduto capace, i lunghi capelli castani. I pensieri si avvicendavano veloci come fulmini nella sua testa: il padre non avrebbe approvato, non poteva permettersi nulla del genere, tanto meno con un gallico. Ma ogni pensiero pareva spegnersi mentre lei ricambiava il dolce bacio del ragazzo. Trascorsero un po' di tempo ai piedi dell'ulivo, abbracciati, mentre lei raccontava storie di eroi e martiri nella sua lingua ancora ignota, e lui le rispondeva narrando della sua famiglia, delle sue montagne, della sua amata e ormai perduta Helvetia. Gaia non fece ritorno in casa prima del sorgere del sole, recandosi immediatamente nella sua stanza, ma non riuscendo a chiudere occhio per ciò che restava della notte, usurpata dal primo sole dell'alba.

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