𝐗𝐕

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Gaia Valeria non aveva accennato a spostarsi dal divanetto posto a poca distanza da una parete della sala principale, che, solitamente, era utilizzato per fare accomodare gli ospiti e fronteggiava un altro pezzo di mobilio dalle fattezze quasi identiche. Livia Giulia aveva recuperato una delle sue mantille e l'aveva usata per cingere le spalle alla figlia. La ragazza la ricordava bene: era la preferita della madre. Era di un colore rosso vibrante, nonostante gli anni ne avessero usurato il tessuto e attenuato l'antica saturazione, la madre amava quel colore: i suoi abiti ufficiali, infatti, se non totalmente delle sfumature del carminio, portavano spesso dettagli di quel colore. Era riccamente decorata con piccole perle color avorio, che disegnavano un elaborato motivo floreale, e ne percorrevano raffinatamente i bordi: Gaia sorrideva ancora al pensiero di quanto gliela ammirasse, di quanto la madre le rassomigliasse Demetra in persona in quegli abiti sontuosi. Si era stretta in quel pezzo di tessuto mentre, con una mano, prendeva quello che la madre le porgeva: sembrava essere una piccola coperta, a misura di bambino. 

"Era tua, quando eri poco più grande di tua figlia non riuscivi a dormire senza, l'ho conservata per te." aveva sorriso amabilmente la matrona, mentre la aiutava a sistemare la bambina e a mantenerla ben coperta. Gaia le aveva sorriso debolmente di rimando, mentre il centurione, dalla faccia segnata per la mancanza di sonno, aveva percorso la stanza, fino a raggiungere il gallico sanguinante, che ancora non si era rialzato, per accertarsi che fosse ancora in vita, così, almeno, era come aveva spiegato agli inquilini la sua preoccupazione. La realtà era ben diversa: i due anni che aveva trascorso come mentore del ragazzo avevano mutato un profondo disprezzo e una scontata superiorità in affezione, anche se mai lo avrebbe ammesso davanti a lui. Un valente soldato, intelligente e acuto, tuttavia obbediente agli ordini: non avrebbe potuto chiedere di meglio tra i suoi ranghi, tuttavia questo sentimento aveva lasciato il posto ad una profonda rabbia e delusione nei suoi confronti, che aveva inconsciamente alimentato il fuoco morente dell'antico odio che serpeggiava dai fronti cisalpini, fin nella grande Città. Lo aveva aiutato a rimettersi in piedi, rivelando il suo volto martoriato e coperto di sangue, lo avrebbe temuto un volto del genere, in sede militare. Il naso, probabilmente fratturato, spandeva sangue senza accennare a fermarsi, qualche taglio sanguinolento percorreva le sue labbra, sfregiandone la forma, in modo, fortunatamente, non irreparabile. Gli occhi azzurri creavano un inquietante contrasto con il rosso che ora predominava sulla pelle del ragazzo. Aveva notato il mutamento del colore della pelle che ciò che indossava lasciava scoperto, a malapena gli avambracci forti, che si era prima arrossata e ora prendeva un colore livido e violaceo. Il ragazzo, nonostante le molteplici contusioni, non aveva proferito lamento. Aveva accettato con muta riconoscenza lo straccio imbevuto d'acqua che il romano gli aveva dato per ripulirsi il viso e tamponarsi il naso. L'elvetico, poi, si era avvicinato pericolosamente a Bellicus ed Ateius, sovrastandoli con la sua altezza. Entrambi tradivano un certo timore nei suoi confronti: sapevano che, su un campo di battaglia, con una lotta alla pari, non sarebbero sopravvissuti, un velo di amarezza aveva attraversato gli occhi dell'anziano soldato, rivolta all'atto vigliacco del figlio. Successivamente si era voltato verso Valerio e, in un latino impeccabile che tradiva solo leggermente le sue origini, aveva proferito un'unica frase: "Lasciatemi sposare Gaia.". Nel suo immaginario il padre avrebbe acconsentito, nonostante la voce nella sua testa continuasse ininterrottamente a sussurrargli l'impossibilità di ciò. Immaginava di poter abbandonare le promesse fatte in Gallia, di poter vivere la sua vita con la donna che aveva amato e che continuava silenziosamente ad amare. "Gallico, saresti solamente un disonore. La tua nobiltà è nulla qui, come è irrisoria anche tra le tue montagne." aveva azzardato, sprezzante, il padre della ragazza. Detestava Ateius, detestava le violenze che aveva riservato alla figlia, disprezzava il fatto di doverlo riconoscere come parte della famiglia. Tuttavia covava un odio viscerale per l'affronto di Fearghal, e non avrebbe mai permesso che fosse perdonato. "Al sorgere del sole prenderai la bambina e te ne andrai. I romani tendono ad essere ospitali e non lasceranno dei concittadini a morire assiderati." aveva poi concluso indicando debolmente la piccola Bricta che dormiva tranquilla tra le braccia della madre. A giudicare dal colore del cielo pareva mancare molto poco alla sua dipartita, quindi, rassegnato, aveva recuperato le poche cose che aveva portato con sé dalle celle dell'arena: degli abiti spiegazzati, qualche avanzo di cibo, e la fidata spada che usava negli allenamenti quotidiani. Aveva trascorso gli ultimi minuti seduto accanto a Gaia e alla sua bambina, parlando alla piccola nella sua lingua, che portava sempre nel cuore, e poi traducendo le antiche storie alla madre, che tratteneva le lacrime. Publio Valerio aveva richiesto che la spada fosse lasciata a lui, comando subito eseguito dal gallico che l'aveva riposta nelle mani callose dell'uomo con ossequioso rigore. Successivamente si era inginocchiato ai suoi piedi e l'aveva ringraziato della clemenza, e dell'ospitalità, si era risparmiato le scuse che non sentiva appartenergli e, con le lacrime agli occhi, aveva prelevato l'esserino che giaceva tra le braccia di Gaia, accarezzandole dolcemente una spalla, e riservandole un bacio dolce sulla fronte. Il centurione aveva fatto portare un cavallo davanti alla casa, cosicché il viaggio non fosse troppo lungo e faticoso. L'aveva osservato estrarre un pugnale che teneva nascosto, probabilmente, in una piccola fodera ricavata all'interno delle sue calzature: la fattura era sicuramente romana. Aveva sorriso ancora una volta della scaltrezza del giovane mentre lo osservava allontanarsi e confondersi con le prime luci dell'alba.

Quello stesso giorno Gaia aveva "acconsentito" alle nozze, rendendo ufficiale l'unione con Ateius. Il piccolo rito che Livia Giulia aveva organizzato in tutta fretta sarebbe stato perfetto, se non fosse stato per la situazione. La madre l'aveva abbracciata e le aveva raccomandato di mostrarsi felice per non destare sospetti, il sole alto nel cielo aveva accolto una Gaia splendente, nell'abito rosso che aveva indossato in occasione dei Lupercali, con degli spilloni fissati in modo da essere quasi invisibili, per stringerne la vita, aveva insistito per poter indossare la mantilla della madre, concessione data senza repliche. La madre l'aveva truccata alla moda delle matrone, un disegno sottile e nero come il carbone le cerchiava gli occhi verdi e alla sua stanchezza avrebbe dato a motivazione l'emozione per il suo grande giorno. Bellicus aveva acconsentito ad accogliere la nuova moglie del figlio in casa sua, quindi aveva ordinato venissero preparate le sue cose per l'imminente trasloco. Nella sua testa balenava l'idea di scappare, di sottrarsi a quei voti non voluti, di uccidere il marito quella notte stessa e di partire per ricongiungersi a sua figlia. Il padre pareva intuire ognuna di queste idee, e la fulminava con lo sguardo, perché potesse ripararsi senza intoppi l'onore della famiglia. Schiacciata dal volere del padre, provata dal dolore e dalla stanchezza aveva tristemente accettato tutti i termini delle nozze, sperando che quella giornata finisse al più presto, rivelandosi come un terribile incubo e nulla di più.

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